Inquieto fino alla fine

Riflessioni sul gesto di Lucio Magri, tra i fondatori del Manifesto. Offrire prossimità resta un dovere per affrontare, mai da soli, anche il non senso degli ideali falliti e degli affetti perduti
Magri Lucio

« La verità è che questo suicidio mi turba profondamente. Ho come l’impressione di non aver fatto abbastanza. Non mi sono arrabbiato abbastanza. L’ho subìto, insomma, e non me lo perdono». Sono le parole di Valentino Parlato, vecchio amico di lunga militanza politica come Lucio Magri e abituato a parlare con estrema franchezza e onestà intellettuale anche nei confronti del gesto di uno che è andato a morire in Svizzera in una clinica specializzata in queste pratiche.

 

Così anche Luciana Castellina che riconosce amaramente che «non aveva più motivi che lo trattenessero (nel mondo) e noi amici e compagni non siamo riusciti a dargliene di sufficienti». Questo è il dolore degli amici impietriti dalla decisione. Poi c’è quello di una scelta politica che nella sua radice è scelta generosa di vita, di condivisione, di tentativo di cambiare il mondo senza lasciare questa tensione agli anni giovanili. Anni che per Magri hanno coinciso con l’impegno nella cosiddetta sinistra democristiana, che non poté realizzare il sogno di una giustizia sociale perché la situazione internazionale obbligava ad alleanze con poteri che non hanno voti ma possono mettere in ginocchio un Paese decidendo ad esempio di portare i capitali all’estero, il cosiddetto “quarto partito” della finanza, degli intrecci poco limpidi con cui bisognava sempre fare i conti.

 

Aggiunge un senso di smarrimento il sapere che quell’atto estremo sulla propria esistenza sia stato compiuto da Magri nell’efficiente Svizzera dove, come ci dicono le cronache, si stanno muovendo ingenti somme di denaro per fuggire da un’ economia in recessione. Una scelta che aggraverà le condizioni di strutturale ineguaglianza, quella contro cui Magri ha lottato per tutta la vita, – una contraddizione della condizione umana. La sua sana inquietudine lo ha fatto definire “eretico” dentro il suo stesso schieramento, ma non poteva abbandonare una chiesa, quella giovanile della DC per diventare fedele esecutore di un’altra organizzazione ancor più totalizzante, quel partito comunista guardingo verso ogni “frazionismo”, che metteva sotto controllo quei militanti che proponevano il dissenso interno. “Praga è sola”, l’editoriale scritto su“Il Manifesto” a sostegno delle ragioni della rivolta contro l’invasione sovietica della Cecoslovacchia, porta la sua impronta. Un peccato pagato con l’espulsione collettiva dell’intero gruppo redazionale dal partito: quel foglio esprimeva una lucida analisi sulla crisi di quegli ideali di uguaglianza e di redenzione sociale che avevano sorretto milioni di persone.

 

Quando Magri fondò con altri il partito di unità proletaria (Pdup) alternativo al Pci, scelse il simbolo di un globo sovrastato da una falce e martello, l’eredità non si dimentica. Con la sua morte, scelta e voluta in un clinica svizzera, forse il messaggio che Magri ha voluto lasciare non è stato di fine della storia. Il suo ultimo libro, “Il sarto di Ulm”, prende a paragone il racconto storico di Brecht sul confronto tra un sarto e il potente signorotto che negava la possibilità all’uomo di volare. Alla fine l’artigiano si schianta al suolo cercando di levarsi in volo, ma alla fine sappiamo che attraverso la tecnica l’essere umano è riuscito davvero a volare. Come a dire, ci abbiamo provato sbagliando ma, prima o poi, ci riusciremo.

 

Ma nel frattempo come rispondere a questa coscienza del limite? Sono domande che attraversano credenti e non credenti, fino alla depressione che si accompagna con le vicende personali degli affetti mancati e della durezza dell’esistenza. Sono interrogativi ineludibili e difficili che altri compagni di quella vicenda umana e politica, come Rossana Rossanda e Filippo Gentiloni, hanno affrontato senza pudori in incontri degli anni ‘90 a Monte Giove in un dialogo aperto con alcuni monaci camaldolesi. La domanda partiva dalla contemplazione del dolore innocente, la sofferenza di una giovane per un male incurabile, senza voler trovare scorciatoie consolatorie o fughe alienanti. Una pretesa esigente che non può non incontrarsi con il grido nella notte della croce da cui si leva la domanda sul «perché». Quella interrogazione, per Gentiloni, lascia la porta aperta che non sta a nessuno chiudere.

 

Ne “Il padrone del mondo” di Benson, si immagina un futuro mondo perfetto ma inumano. E mentre si sta consumando un fine vita programmato in una linda camera di ospedale, nell’impotenza dell’ultimo cristiano rimasto sulla terra, si sente un suono lontano e sempre più vicino. È l’annuncio della venuta finale del Signore della storia.

La speranza che rimane davanti a gesti come quello di Lucio Magri è quella di poter offrire, prima di quel momento finale, una reale compagnia e prossimità che renda giustizia di tante attese, fino a saper affrontare, insieme e non da soli, anche il non senso.

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