Innovazione, mercato e società: alcune domande a Luigino Bruni
1. Professor Bruni, nel suo articolo appena pubblicato su Nuova Umanità[1] lei descrive la figura dell’imprenditore, in una maniera abbastanza differente da quella che spesso, attualmente, viene rappresentata. Ci può spiegare da dove nasce, secondo lei, questo scollamento? Da dove, cioè, le figure dell’investitore, del manager, dello speculatore, si sono andate a confondere con quella dell’imprenditore-innovatore?
Molto dipende dalla rivoluzione della finanza, che ha investito l’economia (prassi e teoria) negli ultimi 20 anni. Tra la fine degli anni Ottanta e l’inizio degli anni Novanta, per alcuni cambiamenti gravi avvenuti nella geopolitica e geoeconomia mondiali per effetto della globalizzazione, l’Occidente ha rallentato la sua crescita, ma non ha voluto ridurre i consumi. La finanza creativa ha allora promesso una fase di crescita dei consumi senza crescita di reddito, con nuovi strumenti tecnici. Questo ha fatto sì che tanti imprenditori si sono trasformati in speculatori, pensando di fare profitti speculando, lasciando il loro settore tradizionale e vocazione (si pensi a che cosa facevano negli anni novanta la Fiat e la Pirelli, per restare in Italia, ma anche l’ex Olivetti). Una seconda ragione è stata la uniformazione delle culture aziendali, sulla scia di un forte potere della cultura anglosassone. La tradizione europea e italiana di gestione delle imprese erano caratterizzate da una forte attenzione alla dimensione comunitaria e sociali, a causa della presenza di un paradigma cattolico-comunitario (soprattutto nei paesi latini). Questo ha fatto sì, insieme alla prima causa della rivoluzione finanziaria, che i managers assumessero un ruolo sempre più centrale nelle grandi imprese, a scapito degli imprenditori tradizionali. Oggi c’è un enorme bisogno di rilanciare una nuova stagione di imprenditori, se vogliamo uscire dalla crisi, e di ridurre il peso degli speculatori (e dei managers superpagati).
2. Partendo dalla Teoria dello sviluppo economico di Schumpter[2], descrive il mercato come una “staffetta virtuosa” tra innovazione e imitazione, dove l’innovazione, apportata dall’innovatore-imprenditore, genera e immette sul mercato un nuovo bene, e l’imitazione (di cui sottolinea la positività) lo rende fruibile ai più facendone abbassare il prezzo ed aumentando, così, il benessere collettivo. Poiché però il profitto, per l’innovatore, è essenzialmente circoscritto al lasso di tempo che passa tra l’innovazione e l’imitazione, quali pensa che possano essere dei parametri di riferimento per evitare che tale “staffetta virtuosa” non generi invece il danneggiamento reciproco tra imprese?
Qui un ruolo importante lo svolge la politica, e in generale le istituzioni, che dovrebbero far sì, con opportune normative a garanzia della concorrenza e del corretto funzionamento dei mercati, che la staffetta sia virtuosa e non viziosa. Ma un ruolo co-essenziale lo svolge anche la società civile, i cittadini-consumatori, che con le loro scelte di acquisto debbono premiare le imprese che hanno comportamenti eticamente corretti, e “punire” (cambiando impresa) quelle che hanno un atteggiamento predatorio e aggressivo. Il mercato funziona e porta frutti civili quando è in continuo rapporto con le istituzioni e con la società civile.
3. Infine tratteggia le caratteristiche della “civil concorrenza” in cui la competizione (cum-petere) non si gioca sull’asse Impresa A contra Impresa B per sottrarsi il cliente C, bensì sull’asse Impresa A pro cliente C e Impresa B pro cliente C,dove ogni impresa offre al cliente proposte di mutuo vantaggio e chi riesce peggio esce dal mercato o si ristruttura.
Ci può spiegare bene gli effetti positivi, anche a livello sociale, che questa diverso modo di vedere la concorrenza genera?
In primo luogo contribuisce a creare un tono affettivo diverso nel vivere e immaginare gli scambi di mercato. La nostra lettura e descrizione del mondo è molto importante per i comportamenti che poniamo in essere. Se leggo (anche perché me lo dicono all’università e nei media) che il mercato è una lotta per vincere, che è simile alla guerra o ad alcune dimensioni dello sport (io vinco, tu perdi), quando vivo momenti di scambio di mercato, o anche a lavoro, tendo ad avvicinarmi a questi ambiti con un atteggiamento mentale e spirituale che influenza molto i risultati che poi ottengo, e la felicità (o infelicità) che sperimento. Se invece vedo il mercato come un grande network di relazioni cooperativo, favorisco la creazione di beni relazionali anche nei momenti “economici” della mia vita, e la felicità individuale e collettiva aumenta. Inoltre, leggere il mercato come cooperazione è più aderente alla visione dei grandi classici della storia del pensiero economico (Smith, Mill, Einaudi, e oggi Sen o Hirschman), e più vicino a quanto milioni di persone sperimentano ogni giorno lavorando e scambiando, e non solo nell’economia sociale.
Quali esempi di “civil concorrenza” ci può fornire?
E come pensa che possano essere sostenuti e valorizzati, per creare quella rete sociale di rapporti di cooperazione e mutuo vantaggio?
Il microcredito, la cooperazione sociale, l’economia di comunione, il commercio equo e solidale, sono esempi “di scuola” di questa civile concorrenza, almeno come fenomeni macroscopici (ci sono sempre le eccezioni). Ma anche fenomeni che sembrano lontani possono essere letti con questa griglia. Pensiamo, ad esempio, alla logica degli hotel low cost e il loro rapporto con gli hotel più tradizionali. Possiamo leggere la logica di questi nuovi hotel in questo modo: «ti propongo, cliente, un contratto di mutuo vantaggio. Ti diamo meno di altri hotel (reception, servizi in camera, accompagnatori negli ascensori…), ma ti chiediamo anche di meno (paghi poco): se nell’hotel cerchi l’essenziale (dormire in un luogo pulito e semplice) vieni da noi; se vuoi altre cose, vai dai nostri concorrenti». Il mercato dovrebbe funzionare così: cercare di soddisfare sempre meglio i bisogni degli altri, in un’ottica di muto vantaggio. Per sostenere un mercato civile, anche qui conta la sfera politica. Oggi, ad esempio, in Italia se si estendono all’economia civile i provvedimenti che il Governo sta varando, per ora, solo per le imprese for-profit, si creerebbero centinaia di migliaia di posti di lavoro. Cose serie, quindi, e rilevanti per la vita di tutti.
[1] «Nuova Umanità», XXXIV (2012/1) 199, pp. 1-14.
[2] J.A. Schumpeter, Teoria dello sviluppo economico, Sansoni, Firenze, 1971 (prima ed. tedesca 1911).