Ingratitudine per il servo di scena

La commedia dell'inglese Ronald Harwood calca le scene del teatro Argentina di Roma. La storia è quella di un attore shakespeariano sul viale del tramonto, istrione malato di narcisismo  e del suo confidente factotum
Servo di scena

Molti, sicuramente, ricorderanno l'omonimo film di Peter Yates che, nel 1984, ottenne cinque nomination agli Oscar; film tratto dall’edizione originale teatrale, interpretata da Freddie Jones e Tom Courtenay, che trionfava in quegli anni nel West End londinese. È una di quelle commedie che offrono, in una delle due parti principali, la possibilità di sfogare e, al tempo stesso, ironizzare l’istrionismo congenito dell’attore, e dei suoi vezzi da palcoscenico, addossandolo al personaggio da interpretare: un grande attore. Quello, s'intende, dispotico ed egocentrico, di una volta soprattutto, sorpassato ormai dall’avvento dei registi.

“Servo di scena”, abile commedia dell'inglese Ronald Harwood, è ambientato nella Londra del 1942, bombardata dai nazisti. In un teatro malandato sta per andare in scena Re Lear. Protagonista assoluto, sir Ronald, attore shakespeariano sul viale del tramonto, istrione malato di narcisismo incapace di accettare vecchiaia e declino, seduttore ormai patetico in equilibrio tra vittimismo piagnucoloso e megalomanie, ma ancora fermamente convinto nella propria missione di divulgatore di Shakespeare.Gli è a fianco una malandata compagnia di giro, ma soprattutto Norman, fedele servo di scena,confidente e factotum, che da sedici anni sopporta le angherie e i capricci del mattatore.

Quanto sir Ronald è ingombrante e invadente, tanto Norman è paziente e saggio. E, come in ogni rapporto servo/padrone, entrambi sono reciprocamente indispensabili. Specialmente la sera chel’anziano e coriaceo divo ha avuto un collasso, confonde ormai i drammi tra loro, e non ricorda le battute. Lo spettacolo verrebbe sospeso se non fosse per le infinite risorse di pazienza e di humour del suo fedele "servo di scena" (il termine inglese “dresser”, equivarrebbe al nostro "vestiarista"). E' Norman a rincuorare il vecchio, a ridargli la sicurezza perduta, oltre ad aiutarlo, come sempre, a truccarsi e vestirsi. Ed e' dunque per merito suo che il dramma va in scena e che sir Roland vi ottiene un particolare successo. Ma per Norman non ci saranno, ne' riconoscimenti ne' gratitudine.

Durante l'intervallo, sir Roland dà lettura di una sorta di autobiografia in cui nomina e ringrazia tutti, da Madge, la direttrice di scena, a Milady, la moglie attrice che in scena fa Cordelia, fino all' ultimo degli attrezzisti; tutti, tranne Norman. E, finito lo spettacolo, quando il vecchio si spegne stroncato da un altro collasso, al servo non resta che rifugiarsi in un finto, doloroso cinismo e reclamare a gran voce, come Sganarello alla morte di Don Giovanni, la sua paga arretrata.

Pur risultando alquanto datato, come se fosse un carillon impolverato uscito da una soffitta, e che, forse, avrebbe meritato una più moderna attualizzazione, lo spettacolo portato in scena da Franco Branciaroli, anche regista, ha una sua dignità. Nella bella scena di Margherita Palli – con, in basso, un sottopalco di camerini, e al piano superiore con il retro della ribalta, un sipario e poltrone frontali, il luogo dove si recita e da dove udiamo le voci del pubblico –, vibra nella parte del gigione megalomane e consunto, un Branciaroli nel pieno del vigore, tra ironia e melodramma; dittatore blandito dal suo servo Tommaso Cardarelli che, anche divertendo, gli ruba la scena per straordinaria bravura.

D’altronde il titolo verte su di lui ed è lui che regge le sorti del mattatore e l’intera vicenda; specie nel finale, quando, liberando tutta la rabbia trattenuta e disarmandosi dell’irrazionalità dell’amore, della tenacia, e della dedizione, vira nel tragico.

Al teatro Argentina di Roma, fino al 2 dicembre. In tournèe

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