Ingiustizia sociale e felicità pubblica
Nata a Palermo in una famiglia con 5 figli, di cui una sorella gemella, Anna Staropoli, sociologa presso l’Istituto di formazione politica Pedro Arrupe del capoluogo siciliano e docente della Facoltà Teologica di Sicilia, dice di aver sempre vissuto la dimensione della comunità. Una famiglia nella quale l’attenzione verso i poveri era di casa e la condivisione pane quotidiano, forma la sua sensibilità fin dall’età adolescente. A 19 anni vince un concorso in banca, ma dopo soli tre mesi capisce che vuole altro e si dimette. Il coraggio non le manca. Col marito vive un’importante esperienza nel cuore della guerriglia in un Salvador reduce dall’uccisione di mons. Romero, dove i diritti essenziali venivano calpestati e si rischiava la vita nell’esprimere il proprio pensiero, l’appartenenza religiosa e qualsiasi rivendicazione sociale. In quanto al ruolo delle donne, afferma: «Non ci accontentiamo delle concessioni, vogliamo che venga riconosciuta la pari dignità».
Anna, già da ragazza hai fatto i primi passi nell’impegno sociale. Com’è andata?
A 15 anni, all’interno del liceo classico Umberto, dove tutti gli insegnanti di religione erano gesuiti o laici vicini al mondo dei gesuiti, ho conosciuto le Comunità di vita cristiana (Cvx). Ci invitarono a partecipare ad alcune loro attività e così con mia sorella siamo entrate a farne parte.
Lì ho conosciuto anche Michele, che è stato il mio fidanzatino, l’unico amore della mia vita fino ad oggi e con il quale poi ci siamo sposati. In quel momento, anni ’80, il centro storico di Palermo era invisibile al resto della città, era difficile che qualcuno lo attraversasse.
Ci siamo impegnati nel doposcuola e in una catechesi di strada, proponendo i valori evangelici. Si trattava di un vero e proprio lavoro di restituzione di dignità a bambini che, dentro l’Albergheria, vivevano in una situazione di povertà molto forte. Andare ad incontrare le famiglie casa per casa ci ha permesso di conoscerle profondamente, di capire le ingiustizie. Occorreva trovare delle vie per rompere questo circolo vizioso, che portava ad una sorta di povertà ereditata di padre in figlio.
Per questo hai deciso di continuare con studi in ambito sociale?
Sì, infatti mi sono iscritta a Scienze politiche con indirizzo sociale, per cercare di capire cosa c’era dietro quell’ingiustizia che toglieva il diritto di cittadinanza a molti bambini, vittime spesso di prostituzione, violenza sessuale e “condannati” all’evasione scolastica.
Dietro tutto questo c’era un’azione della mafia, la quale aveva deciso che sul centro storico non bisognava investire. La speculazione edilizia, con imprese in mano alla mafia, portava infatti a creare nuove sedi abitative nelle periferie (lo Zen, il Cep…), dove vennero deportate intere famiglie del centro.
Poi, con il piano particolareggiato esecutivo negli anni ’93-’94 e il primo programma Urban, iniziò il risanamento e allora il centro storico di Palermo cominciò ad essere attenzionato. Gli studi sociali sono diventati per me una scelta di vita, un tutt’uno con il mio modo di stare al mondo.
Come affrontare un tema così cruciale come quello delle periferie?
Penso che il problema sia questo: le periferie non hanno sviluppo reale nelle città. Palermo fatica a prendere il volo perché ha diverse velocità: c’è una velocità nei quartieri residenziali, c’è un’altra velocità per le periferie a sud e per le periferie al nord, c’è una velocità diversa nei quartieri storici dentro il cuore della città. Ma se non si crea uno sviluppo armonico e quindi non si investe nella vocazione di ogni quartiere, creando quella giusta osmosi tra un quartiere e l’altro, il rischio è che ci siano tanti ghetti.
C’è il ghetto marginale, come il ghetto dorato del quartiere dell’alta medio borghesia: sono comunque ghetti in una città che si presenta come poliperiferica. Da tante parti non ci sono asili nido, servizi sociali, servizi sanitari di prossimità, consultori. Occorre potenziare questi presidi democratici che immettono i bambini in un circuito di cittadinanza che può strappare le nuove generazioni alla mafia, offrire alternative, come si sta facendo in alcuni quartieri, ad esempio a Dainisinni. Lì una parrocchia molto piccola e povera sta creando un grande laboratorio artigianale, una sorta di cittadella che chiamano villaggio globale.
Spesso la povertà educativa è una povertà di opportunità, cioè di poter scegliere se realizzare i sogni nel cassetto oppure seguire la via dell’illegalità. Finché non c’è giustizia sociale e giustizia di genere, non ci sarà mai una democrazia reale.
A proposito di giustizia di genere, ti sei dedicata alla formazione delle donne…
Sì, tra il ’94 e il 2001 ho lavorato al quartiere Zen con il progetto “Antigone” rivolto a formare 30 donne come educatrici e addette ai servizi all’infanzia. Poiché era un progetto europeo che prevedeva anche degli scambi internazionali, ci siamo recate a Bruxelles per andare a vedere come funzionavano i servizi all’infanzia, e poi con un gruppetto più piccolo siamo andate in Scozia. Quando siamo partite e anche al rientro, c’era tutto lo Zen: bambini, genitori, nonni, parenti… Era un evento! Il viaggio è stato uno shock culturale.
Io credo che a volte, per uscire da certe situazioni incancrenite o viziose, serva uno scossone culturale perché dà la possibilità di cominciare a pensare che il mondo può essere visto anche in maniera diversa. Il viaggio ha dato a queste donne la possibilità, poi, di tornare con un potere contrattuale diverso rispetto ai propri mariti: si erano formate, avevano viaggiato e questo ha cambiato tante dinamiche.
A scuola molte di loro vennero elette rappresentanti di classe e diventarono mamme tutor quando la scuola organizzò un progetto per la dispersione. Furono loro che andavano ad incontrare le famiglie dei bambini che non frequentavano più la scuola, cercando di capire qual era il problema ed evitando un approccio “scuolacentrico”. Citando un poeta anonimo, possiamo dire che «chi forma una donna forma un popolo». In effetti fu così perché formare 30 donne del quartiere significò cominciare a cambiare una certa cultura in tutto il quartiere.
Hai a cuore anche la formazione di una leadership particolare. Ce ne puoi parlare?
A me non piace la parola leader perché il leader evoca una persona che ha tanti seguaci (follower), un capo. Preferisco, invece, la leadership diffusa che rende tutti autori della propria vita, coautori della vita comune, in grado di poter prendere parola in modo autentico e sviluppare i propri talenti.
Io credo in una cittadinanza che deve essere non solo attiva, ma anche creativa, cioè capace di avere un pensiero libero e propositivo. Nessuno è così povero da non poter dare qualcosa.
Uno dei tuoi progetti più recenti è il “Vocabolario delle donne”. Da dove nasce?
Dopo un corso di due anni sulla mediazione penale e la giustizia riparativa, ho compreso che dietro le parole c’è tutto un corredo emozionale che va considerato.
Una frase letta lo scorso novembre, secondo cui «la violenza è anche una mancanza di vocabolario», mi ha fatto pensare, poi, che forse bisognava ripartire proprio dalle parole. Alcune parole sono piuma, cioè accarezzano l’anima, ti fanno bene, ti consolano, ti permettono di andare avanti; altre sono pietra e nascondono rabbia, non riconoscimento, rancore, violenza, da quella verbale a quella culturale e fisica.
Non c’è femminicidio che non sia stato preceduto da una violenza continua di parole, fino a quando la persona viene annientata ed eliminata. Così potremmo dire del razzismo e di tutto ciò che non porta a riconoscere agli altri una eguale dignità di persone.
Come funziona questo “Vocabolario”?
Con il “Vocabolario delle donne”, ognuno può spiegare una parola che risuona dentro di sé in maniera particolare. Non mi interessa una definizione scientifica, ma sentire ciò che quella parola suscita, un’emozione, un sentimento profondo.
Con quella parola si esprime ciò che si sta vivendo, ci si racconta e queste parole diventano un coro polifonico. Io l’ho lanciato in tante occasioni e le parole mi arrivano personalmente o anche attraverso la mail che si trova sul sito della diocesi di Palermo. Ho compiuto una scelta di fondo: non è un percorso riservato soltanto a donne intellettuali, ma a chiunque, deve essere intergenerazionale e interculturale. In effetti è stato così; le parole sono arrivate da donne con ruoli diversi, di culture diverse e questo mi ha fatto piacere perché ha avvicinato anche le nuove generazioni.
Le pubblicheremo all’interno del sito della diocesi e le condividiamo anche con una rete di sorelle diocesi, una rete nata su proposta della diocesi di Napoli e che ha coinvolto finora 7 diocesi, tra cui anche Palermo. Vorremmo poi far risuonare queste parole anche nel territorio per cui faremo 4 tappe all’interno di un percorso che abbiamo voluto chiamare “Il vocabolario delle donne, le Rosalie invisibili del Mediterraneo”, collegato a santa Rosalia, una donna speciale per noi palermitani, che si è ribellata al patriarcato e ha voluto esprimere liberamente la sua vocazione. Lo faremo attraverso 4 metafore: Rosalia e le donne della liberazione, della fragilità, del coraggio, del Mediterraneo. Rosalia è, infatti, diventata anche mediatrice di tante culture e religioni che hanno deciso di vivere a Palermo e che hanno visto in lei una patrona da assumere. Spero che questo “Vocabolario” diventi una pubblicazione.
Non ti è mai venuta la tentazione di rassegnarti di fronte alle difficoltà?
Se tu stai dentro i quartieri, incontri le persone che ti portano delle domande di ingiustizia: questo ti mette in moto. Possiamo illuderci di essere felici stando comodi nel nostro piccolo mondo, ma c’è una dimensione della felicità pubblica di fronte alla quale non possiamo chiudere gli occhi. Vedere tanti miracoli sociali, anche piccoli, mi dà la motivazione. Essere cittadini creativi comporta fatica e sofferenza, però non c’è altro modo per essere sé stessi, non si può essere felici da soli. La democrazia senza confini è una pratica quotidiana di non violenza che educa alla pace tra le persone e tra i popoli, un pensiero divergente per costruire dal basso una politica umanizzata, un approccio mediterraneo alla vita, un modo di stare al mondo che accoglie la diversità come opportunità di crescita in un dialogo polifonico aperto e libero.