Infanzia berlinese
Walter Benjamin (1892-1940) è stato uno dei massimi intellettuali e scrittori del Novecento, spirito geniale e asistematico proteso in ogni direzione di indagine, animato dal messianismo ebraico delle sue radici e da un entusiasmo utopista per la visione marxiana, che variamente si combinano nelle sue molte opere piccole e grandi, ciascuna aperta come uno sguardo tanto sull’autore che sull’Europa in rotolante crisi. Col poderoso studio, oggi ritenuto il suo capolavoro, sul dramma barocco tedesco in chiave di profezia della modernità, non ottenne la docenza universitaria dal gretto e geloso, come sempre, mondo accademico, e visse di libero impegno culturale fino alla tragica fuga dalla Germania nazista, conclusasi, per l’impossibilità di realizzare il passo definitivo, con il suicidio. Da noi è famoso soprattutto ma in una cerchia limitata, oltre ad Angelus novus, il breve saggio L’opera d’arte nell’epoca della sua riproducibilità tecnica, ma sarebbe ora che un pubblico ben più largo, affinando i propri mezzi, lo leggesse più estesamente. L’occasione viene adesso dalla traduzione Einaudi del testo definitivamente ricostruito dell’Infanzia berlinese intorno al Millenovecento (1938), un gioiello di quadri autobiografici brevi e brevissimi in cui l’autore illumina, sempre alla sua maniera, se stesso e il mondo della propria fanciullezza trasognata e già intelligentissima, indicibilmente tenera (non sentimentale!) nel sentire. inflessibile nel capire. Il suo “sguardo rammemorante “, come dice in un acuto commento Peter Szondi, cerca, al contrario di Proust, di cui Benjamin fu anche grande traduttore, “nel passato il proprio futuro”, è “una ricerca del futuro perduto”, nel presentimento, fin troppo accentuato dall’interpretazione che ne dà T.W. Adorno (che parla di “sguardo del condannato”), delle imminenti catastrofi. A me pare che ci sia, sì, l’acutissima e prensile sensibilità beniaminiana a sondare, dal passato, il futuro che vi è raccolto e come dissimulato, ma con una libertà e una aderenza alla vita tutt’altro che catastrofiche: Benjamin volle e sperò fino all’ultimo, e amò sempre con tenacia geniale, penetrantissima, la realtà anche la più umile, ricavandone tesori di luce, come in questo passaggio autobiografico stupefacente sui suoi calzini arrotolati in un cassetto: “Ogni paio aveva le sembianze di una piccola borsa. Nessun piacere era più grande dell’immergere la mano quanto più a fondo possibile nel suo interno. Non lo facevo per il tepore. Ad attirarmi verso il fondo era il “regalo” che avevo sempre in mano in quell’interno arrotolato. Quando lo tenevo ben saldo in pugno ed ero certo del possesso della tenera massa lanosa, aveva inizio la seconda fase del gioco che portava alla rivelazione. Ora infatti mi accingevo a estrarre il “regalo” dalla sua borsa lanosa. Lo tiravo sempre più verso di me, sino a quando lo sconcerto era al colmo: avevo estratto il “regalo”, ma la “borsa in cui era stato custodito non c’era più.Ripetevo di continuo la dimostrazione di questo avvenimento. Mi insegnò che forma e contenuto, custodia e custodito sono la stessa cosa. Mi educò a estrarre la verità della poesia con la stessa cautela con cui la mano infantile traeva il calzino dalla “borsa””. Ed ecco il presentimento dell’intelligenza: “Zitto zitto, ognuno era preso dalle sue cose da cucire ( ). E mentre la carta, crepitando sommessamente, liberava il percorso dell’ago, di tanto in tanto io cedevo alla tentazione di perdermi nel reticolo del rovescio, che, ad ogni punto con cui sul davanti mi avvicinavo alla meta, diventava sempre più aggrovigliato”. Ma di fronte alla domanda fondamentale di sempre “perché mai esiste qualcosa nel mondo, perché esiste il mondo stesso?”, la mente amorosa di Benjamin risponde con una pagina di assoluta bellezza (La giostra) e con la sovrana autoanalisi della propria crescita (Risveglio del sesso), che è medesimamente la sua fiducia, drammatica ma impavida, in ogni atomo dell’esistenza, perché, dice altrove, “il passato reca con sé un indice segreto che lo rinvia alla redenzione”. Un libro, questo, per il lettore che voglia fare un uso non solo non banale, ma non abitudinale, dell’intelligenza.