Inedita, irresistibile Jacopa
È quasi scontato associare alla figura di san Francesco d’Assisi quella di santa Chiara. Nel suo Jacopa dei Settesoli, la ricca amica di Francesco, edito da Città Nuova, Lucia Tancredi ha accostato invece al Poverello la figura meno nota di una nobildonna trasteverina che gli fu amica col nome di Frate Jacopa. Data in sposa giovanissima al nobile romano Graziano Frangipane, al quale genera due figli, poi vedova ereditiera delle proprietà del marito nel Lazio, aiuta Francesco ad avere un’udienza col papa per l’approvazione della sua nuova famiglia religiosa. Non lo abbandonerà più, travolta dal suo carisma. Fino ad essere sepolta accanto a lui, insieme a 4 suoi compagni della prima ora.
Questo libro segue quelli, anch’essi editi da Città Nuova, dove fai parlare due sante famose: Monica, la madre di sant’Agostino, e Ildegarda di Bingen, la mistica tedesca dottore della Chiesa. Come mai la scelta di Jacopa?
Dopo l’invito, da parte di Città Nuova, a scrivere un’altra biografia per comporre una terna di personaggi femminili, è stata la mia amica e scrittrice Francesca Serra a propormi Jacopa dei Settesoli, di cui non conoscevo nulla. Nel linguaggio mistico si chiama “la caccia d’amore”: il gioco divino in cui si crede di essere cacciatori e invece si è delle magnifiche prede. Continuavo a dire che mai avrei scritto di una sconosciuta come Jacopa, mentre già non riuscivo a fare a meno di lei.
Per questo libro, alla penuria di informazioni storiche hai compensato con la tua libertà di interpretare, sempre però in maniera plausibile e corretta, il personaggio.
Con Jacopa ho dovuto lavorare sul vero dei pochi documenti e sul verosimile di una donna capace di ispirarmi quadri, visioni. Nel periodo in cui scrivevo di lei, mi dedicavo anche alla curatela di un volume monografico dedicato alla scrittrice Elisabetta Rasy. Lei mi ha insegnato l’amore per le mistiche come una grammatica dell’iniziazione al pensiero femminista della differenza. Perimetrare incursioni romane dalla sua casa ai Parioli alla Trastevere di Jacopa non è stato un caso. Poi ho messo Jacopa in cammino, liberandola da strettoie sociali e familiari, come mi ha insegnato Luisa Muraro, autrice de Il dio delle donne: appunto, un Dio che non ama le donne timorate, ma quelle che si affidano all’eccesso e all’avventura.
Col tuo stile di scrittura poetico e insaporito da termini e modi di dire desueti, hai ricreato, si può dire, il clima, l’aria del Duecento.
Ma è lo stile che deve consegnarci il gusto e il sentimento di un’epoca. Deve scardinarci e proiettarci altrove. Per questo a volte scelgo una parola desueta, evocativa, forse difficile, più vicina alla poesia che al corsivo della prosa.
Va riconosciuto anche, da parte tua, un lavoro di immedesimazione nel personaggio grazie alla tua sensibilità femminile.
Nel gioco psicomagico dei personaggi che creo c’è sempre una parte di me. Con Monica di Tagaste al tempo ero madre di un figlio sedicenne, terribile come Agostino, nell’età in cui i figli maschi diventano freddi e lontani, e ci spezzano il cuore. Con Ildegarda è stata una specie di lotta con l’angelo non ancora terminata. Ildegarda è esigentissima. Jacopa è ricca in tutti i sensi, vuole uscire dall’ombra, allo scoperto dei suoi sette soli.
E poi Francesco, dalla sua conversione con la chiamata a ricostruire la Chiesa di Dio, alle difficoltà subito sorte nel nascente movimento, all’impresa folle di impedire la guerra in Palestina…
Francesco non è per nulla un santo semplice e alla buona, come a lungo l’ha descritto la tradizione agiografica: il Serafico. Neanche il pacifista, l’ecologista ante-litteram dell’interpretazione più moderna. Francesco sovverte con il suo radicalismo, mette in discussione i luoghi comuni, i facili conforti. Viene abbandonato e tradito come Cristo. Per secoli è raccontato in modo parziale, secondo la Legenda di Bonaventura da Bagnoregio. Bisognerà aspettare la fine dell’800 per fare luce sull’immenso fabulario degli scritti minori.
E riguardo al rapporto di Francesco con le donne?
Anche qui il danno nel simbolico collettivo era stato fatto. Jacopa è stata fatta sparire, o ridotta alla misura rassicurante del maternage di una vedova che gli prepara i biscotti. Raccontare di lei ha significato anche raccontare di Chiara e delle altre, dei compagni di Fraternità, di certi personaggi trascurati della famiglia di Francesco come Bernardone, il fratello Angelo, il nipote Giovanni. Di un Oriente più prossimo di quanto pensiamo, con il Sultano, il mercante Mousa e sua figlia Tarmusa: il mio omaggio alle Mille e una Notte.
Tornando a Jacopa, l’hai resa attuale, ben diversa dalla ricca vedova che segue Francesco solo con l’anima per poi ritirarsi nella sua proprietà al Circo Massimo a fare opere di bene.
Nel mio libro Jacopa è il grande amore di Francesco, colei che sa mettersi in viaggio per stargli accanto. Parlo di una qualità speciale di questo sentimento, che è il “fin’amor” o amor cortese, inteso come forma di elevazione spirituale. Nella imitatio Christi che Francesco opera su di sé, Jacopa è la sua Maddalena che vuol vicina nella buona ventura e per accompagnarlo a morire. Nel particolare del dipinto giottesco riprodotto sulla copertina del libro, accanto alla salma del Poverello compare una misteriosa signora in rosso dalle trecce bionde che volta le spalle. Per me è lei, è Jacopa, una donna che vuole essere raccontata in modo inedito e avventuroso.
Ripeto, quella di Jacopa e Francesco è una vicenda d’amore straordinaria e assoluta. Eppure lei per Francesco non si è oblata, non ha messo il velo, non è diventata una vedova edificante. Questo forse è l’amore: restare sé stessi, camminarsi accanto nel rispetto della reciprocità, nella meraviglia di sapersi diversi. E per questo irresistibili.
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