Indonesia tra tensioni e desiderio di armonia

Un profilo di questo grande Stato asiatico, dove gli attentati degli ultimi giorni contro i cristiani contrastano con il desiderio di pace della popolazione. Dal nostro corrispondente

“Unità nella diversità” è la traduzione di “Bhinneka Tunggal Ika”,il motto posto alla base dell’emblema nazionale indonesiano, espressione che ben descrive quella pluralità di etnie, religioni, lingue e costumi che compone l’immenso arcipelago del Sud Est asiatico. L’Indonesia, 220 milioni di abitanti, rappresenta il paese con la popolazione musulmana più estesa al mondo. A fianco dell’Islam vivono le minoranze cristiane, buddiste, indù, confuciane e delle religioni tradizionali.

 

L’Islam, arrivato intorno al XIII secolo ad opera di commercianti provenienti da India, Cina e Medio Oriente, è stato in grado di diffondersi tutto sommato pacificamente, sfatando il mito che si sia sempre espanso con l’aiuto della spada. Forse anche grazie all’innato desiderio di preservare l’armonia dei rapporti, tipico della cultura indonesiana, i musulmani hanno convissuto con le altre religioni senza grossi conflitti, per secoli. Inoltre l’Islam ha saputo acculturarsi, rispettando ed accogliendo diversi elementi delle tradizioni preesistenti e assumendo un tipico volto indonesiano. Per questi motivi l’Indonesia potrebbe assumere un ruolo di rilievo come modello di convivenza per gli altri stati a maggioranza musulmana.

 

Nonostante queste premesse, soprattutto a partire dagli anni ’80, si sono verificati gravi fatti di intolleranza e discriminazione a sfondo “religioso”. Ora, a seguito degli ultimi violenti e sanguinosi episodi accaduti all’inizio della settimana, la figlia del recentemente scomparso presidente Abdurrahman Wahid si chiedeva, in un’intervista televisiva, come sia ancora possibile promuovere l’Indonesia come il paese dell’armonia delle diversità, se la realtà ormai lo smentisce apertamente.

 

Sono tristemente noti i fatti degli ultimi giorni: l’attacco perpetrato contro il gruppo islamico “eretico” Ahmadiyah a Giava Occidentale, che ha provocato la morte di tre suoi seguaci, e la distruzione di due chiese protestanti e di una cattolica nell’area centrale dell’isola. Questi tragici episodi hanno riproposto la minaccia del fondamentalismo come punta estrema di un graduale diffondersi dell’intolleranza religiosa vissuta nel quotidiano in tante forme, più o meno subdole.

 

Quali sono i fattori che alimentano la rottura dell’armonia tra le religioni? Il più profondo di essi è la naturale “paura del diverso da sé”, tipica di ogni gruppo, specialmente se maggioritario, che vede “l’altro” come una minaccia al pacifico e favorevole status quo. È l’elefante spaventato dal topo. Ma pur apparendo strano, si tratta di una malattia che ci contagia tutti e dalla quale abbiamo l’obbligo di curarci. Nel caso particolare dell’Indonesia penso vi siano poi altri elementi specifici da sottolineare.

 

Il primo è rappresentato dal tentativo di infiltrazione di gruppi integralisti come quelli legati all’ideologia Wahabita dell’Arabia Saudita e ai Fratelli Musulmani dell’Egitto, che sostengono, anche finanziariamente, il progetto della progressiva arabizzazione dell’Islam indonesiano e la costituzione di uno stato islamico, snaturando in questo modo i fondamenti costituzionali della Nazione, e mettendo sotto minaccia i diritti delle minoranze non musulmane. Oltre all’aiuto dei petrodollari, questi movimenti hanno grande capacità organizzativa e sembrano più compatti dei gruppi moderati, più consistenti numericamente, ma disuniti e meno impegnati a far sentire le proprie ragioni.

 

Il secondo elemento è rappresentato dall’inefficace azione dello Stato nel proteggere le minoranze. Purtroppo i dati dimostrano che in molti casi la polizia era stata informata in anticipo, ma ha assistito agli episodi di violenza senza intervenire. I responsabili, poi, difficilmente vengono perseguiti. I gruppi che hanno perpetrato gli attacchi negli ultimi giorni erano composti da un migliaio di persone, la maggioranza dei quali provenienti altre zone del paese, e quindi con ogni probabilità finanziati e di certo non spontanei. Da molte parti si chiede di perseguire la mente di tali attentati e non solo gli esecutori materiali. Recentemente, un gruppo di nove esponenti di diverse religioni, di cui tre cattolici, guidati dal presidente della Conferenza Episcopale, ha risolutamente richiamato il Presidente ai suoi compiti: uno di essi è proprio quello di proteggere ogni cittadino dalla violenza di matrice religiosa.

 

Il terzo elemento è una legislazione discriminatoria. Alcune norme in vigore limitano fortemente la libertà religiosa, tradendo lo spirito della Costituzione che sancisce il diritto alla libertà religiosa per tutti. Alcuni esempi: via libera a norme locali ricavate dalla Shari’a; difficoltà nell’ottenere i permessi per la costruzione di chiese (in questo caso le norme sono liberali, ma non applicate); lo Stato si arroga il diritto di stabilire quali siano le religioni approvate (finora islam, buddismo, induismo, cattolicesimo, protestantestmo e confucianesimo): gli “altri” rischiano di non essere considerati cittadini, faticano ad ottenere la carta d’identità e il certificato di matrimonio; è in vigore la legge per l’“offesa alla religione” (diventata causa scatenante degli ultimi attacchi alle chiese cristiane a Giava); l’ateismo è vietato.

 

Chi soffre sono le minoranze che si sentono abbandonate, non protette e talvolta apertamente perseguitate. Al momento attuale lo sono soprattutto gli Ahmadiyah che, oltre a subire vessazioni e violenze, sono sotto la minaccia concreta di essere banditi dal paese e diventare “illegali” a motivo della loro fede. È facile immaginare che, se tale normativa dovesse essere avvallata, l’odio fondamentalista avrebbe mano libera. Ma chi teme per il futuro sono anche gli altri gruppi islamici come gli sciiti e i sufi, e più in generale i musulmani moderati, i quali si ribellano al vedere la loro religione infangata dall’odio e dall’intolleranza. Per loro l’Islam è e deve rimanere una “benedizione per tutto il creato”, una religione che porta la pace.

Se queste sono le tinte fosche della situazione, bisogna però ribadire con forza che la maggior parte della popolazione indonesiana è per natura, carattere e cultura, desiderosa di armonia e pace. In genere le relazioni interreligiose tra le persone comuni, nelle scuole, nei posti di lavoro e nelle famiglie, non sono conflittuali.

 

Inoltre ci sono segnali di luce. Mi sembra di percepire che gli ultimi fatti di cronaca stanno spingendo la società ad una maggiore presa di coscienza civile sull’inalienabilità dei diritti fondamentali di tutti i cittadini. Gli intellettuali si stanno schierando contro l’intolleranza e il dibattito trova risonanza nei media.

 

Un altro effetto positivo è il rinnovato spirito di collaborazione tra gruppi religiosi diversi, sia a livello di vertici, come la denuncia dei nove esponenti delle grandi religioni di cui ho accennato, sia per la base, come quel gruppo di giovani musulmani che ha aiutato a ripulire la chiesa cattolica di Temanggung (Giava Centrale), dopo l’attacco subito nei giorni scorsi. Molte organizzazioni non governative a difesa dei diritti dell’uomo sono di fatto interreligiose. Alcune personalità islamiche stanno veramente dedicando tutto se stesse per la difesa dei diritti delle minoranze non musulmane, anche a fronte di grossi rischi personali, mentre ci sono segnali di collaborazione tra le due più grandi organizzazioni islamiche indonesiane, Nahdlatul Ulama e Muhammadiyah, entrambe moderate, ma tradizionalmente in contrasto tra loro.

 

Paradossalmente stiamo vivendo un momento favorevole, nel quale si ha l’occasione di conoscersi, di lavorare insieme e di capire che, anche partendo da appartenenze religiose differenti, non siamo così diversi: abbiamo tutti la fede nello stesso Dio e il desiderio di veder realizzata la fratellanza universale.

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