Indonesia naturalmente tollerante

Alla conoscenza di un enorme Paese che vive le sue contraddizioni e le sue chance con relativa tranquillità. A colloquio con uno dei massimi esperti dell’arcipelago
Magnis Suseno

Il professor Franz Magnis-Suseno è gesuita, da 51 anni in Indonesia. Ormai ha la nazionalità indonesiana, ed è fiero di averla. È uno dei maggiori studiosi della cultura e della filosofia indonesiana. Assieme ai francescani ha dato vita alla Sekolah Tinngi Filsafar Driyarkara, un istituto universitario post-graduate in filosofia, forse il miglior centro dell’intera Indonesia dedita allo studio, appunto, della filosofia, materia peraltro non troppo sviluppata da queste parti: «È una via privilegiata per il dialogo interreligioso – mi spiega –, perché qui chiunque può venire a studiare il pensiero indonesiano, senza sentirsi bloccato da altre materie quali la teologia o l’esegesi».

Padre Magnis-Suseno è stato inviato qui dalla sua provincia tedesca per una serie di “felici” coincidenze: avrebbe dovuto essere destinato in India, a Poona, ma i visti in quel 1961 erano stati bloccati dalle autorità indiane, e contemporaneamente i gesuiti olandesi, a cui “spettava” il gemellaggio con l’Indonesia in quanto ex-colonia dei Paesi Bassi, avevano visto impedita la loro entrata nel Paese dal governo locale. Il doppio blocco ha così aperto la strada al giovane e intraprendente Franz, anche per un ulteriore, preciso motivo: era esperto di marxismo e di comunismo, per via del suo dottorato, e in Indonesia incombeva il pericolo che proprio il partito comunista accedesse al potere. Fu perciò inviato nell’arcipelago per studiare il fenomeno. «Ma il mio studio, peraltro forse profetico, alla fine non servì: ero giunto alla conclusione che esisteva un reale pericolo di “sovietizzazione” dell’Indonesia nel caso in cui il Partito comunista indonesiano fosse giunto al potere; ma nel frattempo il presidente Suharto ci aveva pensato, relegando quel partito in una posizione insignificante».

Il suo approccio all’Indonesia è cominciato a Yogyakarta, dove studiava. Bastò un breve lasso di tempo per arrivare allo shock culturale: «Avevo deciso di studiare a fondo la lingua, prima di ogni cosa. Ebbene, un po’ per questo lavoro intellettuale e linguistico e un po’ per il lavoro pastorale, mi accorsi che non avevo capito granché della mentalità indonesiana, giavanese in particolare. Si era nei tempi conciliari, infatti, e si discuteva molto di liturgia, delle innovazioni permesse e anzi auspicate dal Vaticano II. Ne parlavamo animatamente nell’istituto dove studiavo, e avevo l’impressione che ci fossero buone discussioni. Poi, d’improvviso, venni a sapere che i miei interlocutori indonesiani, non gli europei, erano rimasti come bloccati dalle mie affermazioni, avvertivano una certa qual imposizione da parte mia. Ci rimasi malissimo, ma cercai di “lavorare” su quella sconfitta, e compresi che per l’indonesiano non è tanto importante dire la verità così, senza precauzioni. Era molto più importante permettere all’altro di esprimersi, era più importante controllare le emozioni senza arrabbiarsi, anche solo nella discussione teorica, perché per loro tale arrabbiatura era già una rottura. Ho capito allora che cosa significasse mettersi allo stesso livello loro».

Una buona entrata in materia per capire un Paese immenso – 5 mila chilometri da Est ad Ovest, più di 17 mila isole, 276 milioni di abitanti, culture ed etnie a non finire, lingue a bizzeffe –, in cui le culture sono legate alle etnie più che alla posizione geografica. Come riuscire a far sopravvivere un tale enorme Stato? Padre Magnis-Suseno è chiaro: «È stato merito di Sukarno, che è riuscito ad infondere negli abitanti dell’immenso territorio l’orgoglio di appartenere all’Indonesia. Ha fornito le biciclette a tutti, ha portato adeguati servizi pubblici anche nelle isole più remote, creando in tutti un sano nazionalismo. I problemi etnici sono rimasti, e così anche le rivendicazioni reciproche, non escluse quelle di indipendenza. Ma finalmente il nazionalismo all’indonesiana è penetrato, permettendo di risolvere tutte le questioni etniche sul tavolo – compresa quella di Banda Aceh, conclusasi in occasione dello tsunami del 2004, o quella di Timor Est, resosi indipendente tra il 1999 e il 2002 –, moderando le particolarità etniche e conseguentemente anche il radicalismo religioso. In qualche modo si può dire che qui si è prima indonesiani e poi musulmani, cristiani, buddhisti. Il rischio di sciovinismo, agendo in questo modo, è quasi scomparso nel nazionalismo indonesiano».

L’Islam indonesiano è poco conosciuto. Anche se è il più grande Paese musulmano al mondo come numero di abitanti che seguono l’Islam, l’Indonesia è un mistero anche per tanti valenti islamologi. Sostanzialmente, mi spiega padre Magnis-Suseno, ci sono tre tendenze tra i musulmani locali: ci sono coloro che cercano di valorizzare gli elementi culturali locali, cioè quelli che in qualche modo rendono l’Islam più vicino alle popolazioni del posto, quelli che lo rendono distinguibili da altri Islam (questa tendenza “tradizionalista” è stata popolarizzata e valorizzata dall’ex-presidente Abdurrachman Wahid, che era cieco, eliminato dal potere nel 2001 per una molto dubbiosa storia di corruzione); vengono poi i musulmani più legati alla tradizione wahhabita dell’Arabia saudita, che hanno cominciato a prendere piede dopo l’apertura dello Stretto di Suez, che ha incrementato enormemente i viaggi dall’Indonesia verso i Paesi arabi, e viceversa (questa seconda tendenza, classificabile invece come “conservatrice”, perché richiama il ritorno al “vero” Islam, quello originario della Penisola arabica, viene identificata con il gruppo della Muhammadyah); e la tendenza invece legata ai Fratelli musulmani egiziani (definiti qui come “fondamentalisti”, che hanno fondato il partito Pks, ora molto attivo e con qualche rappresentante nel governo).

«Sembrava in un primo momento che il gruppo dei “tradizionalisti” fosse più aperto al dialogo a tutti i livelli – mi spiega il gesuita germano-indonesiano –, ma ora appare più orientato al dialogo il gruppo dei “conservatori”, per quanto ciò possa sembrare contradditorio. E gli stessi Fratelli musulmani, nel loro più recente congresso hanno invitato a parlar loro personalità di altre religioni e tendenze, sorprendendo tutti. Sembra quasi che i musulmani indonesiani siano molto attaccati nel fondo a una verità storica importantissima, quella cioè che Muhammad stesso spinse i suoi ad accettare la coesistenza con ebrei e cristiani. Quindi l’accettazione della diversità sembra essere una delle basi dell’Islam indonesiano, al di là del gruppo al quale si faccia riferimento».

Il docente gesuita aggiunge che l’identità musulmana e indonesiana è sempre stata tollerante, salvo quando ci furono delle provocazioni gravi alla loro integrità. L’Islam tradizionale islamico, condannato dagli ulema nel XIX secolo, appunto dopo l’apertura dello stretto di Suez, era legatissimo alla vita del villaggio e alla sua strutturazione sociale e familiare. Cosa che venne fortemente criticata dagli ulema stessi, che consideravano tali rituali come ostacoli gravissimi all’integrità dell’Islam. Quindi i “tradizionalisti” erano diventati il loro peggior nemico: meglio a quel punto frequentare i cristiani! Il nazionalismo di Suharto ha moderato questo “conservatorismo” sostanzialmente wahhabita. Il terrorismo?

Ha avuto spazio solo nel 2000, quando 30 bombe scoppiarono contemporaneamente in tutto il Paese, facendo molti morti, soprattutto a Bali. C’è chi da subito sospettò che quegli ordigni non fossero stati posti da questo quell’altro movimento musulmano (non avrebbero mai avuto una tale potenza di fuoco!), ma da forze incontrollabili dello Stato. Ma la cosa è finita lì, perché i musulmani indonesiani sono per natura loro tolleranti. Per questo basta mantenere buoni rapporti con loro, relazioni sincere e durature, per evitare problemi maggiori. Su questa base, ad esempio, dopo il discorso di Benedetto XVI a Reghensburg, bastò una visita del cardinale ai principali centri musulmani per disinnescare ogni reazione. Chiese semplicemente scusa se qualcuno si era sentito offeso!

Anche qui in Indonesia la comunità di origine cinese ha la sua importanza, contando circa un 8 per cento della popolazione. «Ma il problema è che circa la metà di questi cinesi sono cristiani, e quindi doppiamente minoranza. Sono in effetti numerosissime le conversioni da un blando confucianesimo o un confuso taoismo ad un ben più stagliato cristianesimo. E questa gente alla fine sembra trasformarsi, diventando militante della sua nuova religione. Nel 1998, alla caduta di Suharto, ci fu il rischio di un’esplosione della comunità cinese, anche perché le rivolte vennero istigate da personaggi ben noti dell’esercito, della politica e dei servizi segreti. Intendiamoci, tra cinesi le rivolte ci sono sempre state, ma solo per motivi commerciali, mai religiosi o politici. Ora le cose vanno meglio, anzi bene, anche se bisogna sempre evitare il pericolo di amalgama tra il loro essere cinesi, la loro appartenenza cristiana e il sostegno politico a questo o quel partito. La formazione di una buona classe media, porta anche ad un’attenuazione delle difficoltà con la minoranza cinese, perché gli stessi cinesi fanno parte in buona percentuale di questa stessa classe».

Come a Singapore, come in Malesia, come in gran parte dell’Asia sta emergendo una profonda penetrazione dello spirito neo-liberista, se non assolutamente consumista, che sta creando non pochi imbarazzi in diversi Paesi. Anche in Indonesia? Padre Magnis-Suseno è convinto che il Paese sia parzialmente diverso: «In Indonesia negli ultimi anni sono stati costruito una cinquantina di mall. Sono sempre pieni, anche di gente di classe modesta. Spesso i negozi più cari rimanevano deserti, ma non so come continuavano a funzionare. Se guardiamo al popolo indonesiano, il 50 per cento è appena sopra o sotto la soglia di povertà. E c’è un 20 per cento di società che fa parte della cosiddetta classe media che cresce regolarmente. Tuttavia l’invidia sociale qui non è forte. Gli indonesiano coltivano nel loro animo dei sentimenti di giustizia profonda, ma accettano il divario sociale a condizione che gli si lasci vivere la loro vita, quindi anche di andare nei mall dove comprare qualcosa ma al loro livello. Se non verrà più assicurata questa giustizia, l’Indonesia esploderà. Live and let live, sembra di poter dire anche qui. Bisogna che venga loro assicurata una scuola decente, un servizio sanitario minimo, dei trasporti degni, e s’accontentano. Anche nei quartieri più poveri si nota una certa soddisfazione di vivere nella dignità, senza richieste impossibili. Ma se gli indonesiani esplodono diventano incontrollabili. Perché coltivano in sé degli a priori positivi nei confronti degli altri concittadini, diversamente da quanto accade per altri popoli».

E la Chiesa? Anche al suo interno si nota questa naturale tolleranza? «Di solito – mi spiega – non ci sono problemi di gelosie o di reciproche scomuniche. Questo centro fondato assieme da francescani e gesuiti ne è un chiaro esempio. Ci sono gruppi sempre nuovi che trovano un loro spazio, e crescono anche in misura molto forte. Ma talvolta, ammette, c’è un certo senso di gigantismo e si costruiscono chiese spropositato, o strutture eccessive. Non c’è bisogno di piccole basiliche di San Pietro in Indonesia! Perché a Bali è stata costruita una cattedrale bella ma sproporzionata alla comunità cattolica lì presente? Anche i protestanti, sempre a Bali, hanno costruito un centro assolutamente faraonico. Cosa possono pensare i balinesi di tale sfoggio di ricchezza e direi di opulenza? Dov’è la Chiesa dei poveri?».
 

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