Indios e vescovi contro le dighe
I progetti di grandi dighe in Amazzonia e Patagonia suscitano lettere aperte e interventi, anche nelle assemblee degli azionisti dei grandi gruppi industriali. Il caso Enel.
Due minuti e mezzo. Tanto e non di più è stato il tempo disponibile per i rappresentati delle comunità degli indios che abitano le terre della Patagonia cilena giunti apposta in Italia per l’assemblea degli azionisti Enel. Anche il possesso di una minima quota sociale della società permette di intervenire in Assemblea. Qualcosa che assomiglia sempre di più alla rappresentanza politica dove alle minoranze, sempre più esigue davanti agli schieramenti fortemente maggioritari, rimane solo il cosiddetto “diritto di tribuna”, cioè di controllo, e quello molto ridotto di parola.
Sono regole ben conosciute e accettate con realismo dagli “azionisti critici” che basano la loro attività in ambito finanziario sul convincimento che anche un breve intervento nella sede opportuna sia in grado di risvegliare le coscienze di investitori, amministratori delegati ed opinione pubblica. Sempre che giornali e testate, che si definiscono più o meno liberi, abbiano la volontà di dare notizia di qualche indios o contadino che interviene nelle sedi opportune per chiedere di non costruire un sistema di dighe destinate a ricoprire, con un’enorme massa di acqua, migliaia di ettari di un patrimonio naturale tra i più incontaminati della Terra.
Le dighe sarebbero necessarie per la produzione di energia elettrica destinata alla capitale del Cile e alle zone industriali del nord del Paese. Il contenzioso va avanti da parecchi anni. L’anno scorso all’assemblea degli azionisti è intervenuto Luis Infanti De La Mora, vescovo di Aysèn, una diocesi interessata alla grande opera. Aveva la delega della Iccr, la rete interreligiosa per la responsabilità sociale delle aziende, dove sono presenti anche i rappresentanti di molti ordini religiosi cattolici. La sede è a New York ed il corrispondente per l’Italia è la Fondazione della Banca Etica. Ogni anno producono centinaia di interventi presso diversi ambiti societari e finanziari.
Non si tratta di prese di posizione teoriche, perché cercano di proporre soluzioni alternative, praticabili con una diversa politica energetica ed adeguati investimenti. Per il caso delle dighe in Patagonia fanno propria la soluzione proposta dal Consejo de Defensa de la Patagonia imperniata su solare, eolico e geotermia. proposte che comunque non hanno fatto cambiare idea alla Commissione ambientale della regione dell’Aysen che ha approvato, proprio ad inizio di maggio 2011, con una maggioranza inequivocabile (undici ad uno), la costruzione della mega diga che vede l’Enel coinvolta direttamente da quando, nel 2007, ha acquistato il progetto, assieme al controllo della società Endesa Chile.
Chi ha avuto modo di ascoltare, nei suoi vari interventi in Italia, il vescovo cileno, friulano di nascita, Infanti De La Mora, si è reso conto che la critica radicale riguarda la gestione della risorsa idrica a partire dalla privatizzazione dei fiumi decisa al tempo delle ricette economiche iperliberiste di Augusto Pinochet. Una lettera pastorale del vescovo ha costituito la base per un piano di formazione che ha legato la difesa dei beni comuni alla dottrina sociale cristiana.
Nello stesso continente, anche il vescovo presidente del Cimi (Consiglio indigenista missionario) del Brasile ha nuovamente alzato la propria voce contro il progetto, fortemente voluto dal governo Rousseff, di un sistema di dighe in Amazzonia giustificate dall’urgenza di rispondere alla fame di energia di una economia in forte crescita, senza curarsi, secondo mons.Erwin Kräutler, della difesa del patrimonio mondiale della biodiversità e dei diritti delle popolazioni coinvolte. Krauttler, già oggetto di minacce di morte, ha voluto lanciare in questi giorni un nuovo appello con una lettera aperta rivolta alla «comunità nazionale e internazionale», avvertendo che «la costruzione della centrale di Belo Monte si fonda sull’illegalità e sul rifiuto del dialogo con le popolazioni interessate, con il rischio che venga costruita sotto l’imperio delle forze armate, come sta avvenendo con la trasposizione delle acque del fiume São Francisco, nel nordest del Paese». Una presa di posizione dura, che viene dopo una paziente ricerca di dialogo e che definisce un «monumento alla follia» quella che sarà la terza diga idroelettrica al mondo, dopo quella delle Tre Gole in Cina e di Taipu nella stessa Amazzonia.
È infine da notare la scarsa risonanza sui mezzi di comunicazione di queste notizie quando rappresentanti della Chiesa cercano di dare voce a chi non ce l’ha, denunciando, per di più, il pericolo per i beni comuni dell’umanità. Meglio il contrasto aperto che il silenzio.