India, il diritto di indossare l’hijab
Nelle ultime settimane, l’India è stata teatro di una nuova controversia: la questione dell’hijab. È un contenzioso nato in un college di una cittadina dello stato del Karnataka, Udupi, dove un gruppo di giovani studentesse ha ricevuto lo stop da parte delle autorità. Per entrare a lezione non potevano indossare l’hijab.
La questione è diventata immediatamente politica e communal, come si dice in India, colorata cioè di fondamentalismo religioso. In effetti, l’immagine simbolo della nuova questione suscitata dall’ormai nota democrazia fondamentalista del primo ministro Modi, è quella di una giovane vestita con l’hijab che si trova la porta sbarrata da giovani con turbanti e scialli arancioni (colore simbolo dell’induismo fondamentalista). La risposta della ragazza musulmana è stata altrettanto netta: Allahu Akbar. E la giovane non ha desistito dal procedere per incontrare le autorità didattiche a cui doveva consegnare un elaborato.
Nei giorni successivi le giovani studentesse musulmane si sono rivolte alla High Court, la corte statale (non quella Suprema che ha sede nella capitale Nuova Delhi). Il tribunale, con una decisione provvisoria, ha proibito sia l’hijab che turbanti e scialli arancioni all’interno dei complessi universitari, in quanto causa di polarizzazioni politico-religiose. In risposta a questa decisione, ovviamente insufficiente, migliaia di ragazze e donne musulmane hanno cominciato a rivendicare il diritto di vestire secondo la loro coscienza e i loro gusti.
Il clima si è progressivamente riscaldato e non solo quello politico, ma, purtroppo anche quello sociale e religioso. Le manifestazioni da Udupi, nel sud-ovest del Paese, si sono diffuse in varie parti del sub-continente ed hanno invaso in particolare i social media con frasi, commenti e immagini tutt’altro che amichevoli. Sono entrati in scena anche leader e rappresentanti di gruppi e movimenti integralisti, soprattutto indù, che hanno criticato sia l’abitudine, da parte di donne musulmane, di indossare il velo che copre il volto sia la decisione con cui la giovane musulmana ha reagito nei confronti degli esagitati giovani indù fondamentalisti.
È necessario chiarire come il problema hijab sia in India ben differente da quello a cui siamo abituati in Europa e che, qualche estate fa, ha riempito i giornali ed i media a causa delle proibizioni ordinate in Francia. In India la questione è socio-politica ed è una questione su cui, ormai in maniera sistematica e da vari anni, frange integraliste indù attaccano l’Islam e i suoi seguaci. Questo avviene, soprattutto, dopo che nelle ultime elezioni i partiti di Modi e della sua coalizione hanno trionfato alle elezioni.
D’altra parte, questa modalità di vestire non cessa di creare polemiche anche in Paesi a maggioranza musulmana. I dibattiti sulla questione hijab, infatti, sono avvenuti in Kosovo (dal 2008), in Azerbaijan (2010), in Tunisia dal 1981 e, ovviamente, anche in Turchia. Non bisogna, poi, dimenticare che in Arabia Saudita, l’erede al trono, il principe Mohammad bin Salman al Sa’ud, ha dichiarato che la copertura totale del capo e del volto non è obbligatoria per l’universo femminile del mondo musulmano. Ma non dimentichiamo che anche Paesi come Indonesia, Malaysia, Brunei, Maldive e Somalia, non considerano obbligatorio il velo islamico delle donne, mentre rimane tale in Iran, Afghanistan e nella provincia indonesiana di Aceh.
La questione che si sta diffondendo a macchia d’olio è arrivata anche alla Corte Suprema di Nuova Delhi che ha sostenuto la decisione del tribunale locale che aveva vietato l’uso dell’hijab nei plessi scolastici e nei campus universitari. Anche Malala Yousufzai, la giovane pakistana Premio Nobel per la pace, ha condannato la proibizione. La questione è legata, come accennato, a scelte assai controverse da parte del governo Modi che sostiene l’identità indù dell’India.