Incubi, sogni e bisogni del 2003
“L’arte della globalizzazione”. Così si è parlato a proposito e a sproposito di questa Biennale ma, nonostante l’ambiguità del termine “globale” e di ciò che esso racchiude, anche quest’anno titoli ed etichette non bastano a contenere l’arte e i linguaggi che la veicolano, intenzionati da tempo a sparare nelle direzioni più diverse. Risulta quindi arduo riorganizzare le immagini e le emozioni sparpagliate di questa maratona tra diversi modi di vedere il mondo, di metterlo in discussione, di interagire con esso. Tra le “visioni” più scioccanti le sculture iper-realiste di Patricia Piccinini: l’uomo convive con organismi di conformazione fetale; l’invecchiamento precoce dei bambini riporta il pensiero alla pecora Dolly,mentre gli ibridi animali dallo sguardo umano propongono un futuro irrimediabilmente modificato dalla biogenetica. Futuribile anche il padiglione della Corea: torri diverse e appena sbozzate da costruire, da distruggere o da sognare sullo sfondo di uno scintillante mosaico di specchi che allude ad una nuova conformazione dei continenti. Aglio come moneta unica nel 2030, questa la prospettiva di Shu Lea Cheang, artista di Taiwan, mentre nel padiglione israeliano i movimenti di minuscoli gruppi di uomini diventano microrganismi da guardare al microscopio; forme di vita da scoprire, da salvare o batteri da distruggere? La texture delle pareti all’ultimo piano è data da file ininterrotte di uomini che camminano, anonimi, massificati, ridotti a cifre, e la visione proposta da Michal Rovner riecheggia inesorabilmente un drammatico passato. Granbret trasforma il mondo in un grande uovo, ne uscirà una vita o una sorpresa? In effetti un grande punto interrogativo di ordine esistenziale potrebbe essere a buon diritto un altro emblema della Biennale. Domande di luce in tutte le lingue compaiono e scompaiono nel buio dell’opera di Frischli e Weiss. La “Y” di Holler propone un tunnel di luce il cui bivio porta sempre ad uno specchio nel quale si incontra o ci si scontra con la propria immagine, mentre lo spazio, le possibilità e le domande si moltiplicano. E la moltiplicazione diventa frammentazione quasi inafferrabile nel padiglione greco dove diverse persone che raccontano i loro sogni si trovano “proiettate” e sovrapposte contemporaneamente in uno luogo scheggiato e diversificato che il fruitore è chiamato a sondare trovandosi uno spazio appropriato per ogni sogno da ascoltare, da condividere, da rifiutare. La frammentazione spaziale diventa prismatica nel padiglione della Danimarca; la percezione della natura e dell’uomo viene modificata e le complesse costruzioni riflettenti di Olafur Eliasson ci offrono la possibilità di vedere il mondo in un modo tutto nuovo, quasi visto attraverso un grande occhio di mosca. Parallelamente Jana Sterbak dal padiglione canadese ci fa vedere il mondo da un punto di vista ribassato, istintivo, aggressivo, affettivo; il punto di vista è quello di un cane al quale è stata incorporata una telecamera; questa “vista da cani” si sposa e si cortocircuita alla poesia del viaggio e del pianoforte. Gli scatti aggressivi e i bruschi cambi di visuale si accompagnano all’armonia della musica e alla fine la visione totale restituisce una percezione non troppo distante dal nostro essere: un po’ bestiale, un po’ divino. Eppure uno tra i “filtri” più emozionanti per guardare il mondo lo troviamo fuori dal bombardamento sensoriale dei Giardini della Biennale, nascosto in uno dei tanti palazzi che ospitano l’arte dei paesi non contemplati fra i padiglioni dei giardini. Da Singapore Francis NG scherma una grande finestra affacciata sul canale con una gelatina rossa dando vita ad una delle visioni più struggenti e infuocate di questa Biennale: le case, il luccicare delle onde, persino il movimento stesso dell’acqua sembrano fatti apposta per quel rosso liquido che si insinua nell’anima e la riscalda; il tempo rallenta di colpo nell’incanto di un fotogramma finale sull’aspetto più vero e più riservato della bellezza. E, ritornando ai giardini, ecco la sfilata di chi, guardando al mondo, propone la relazione come chiave di lettura, di convivenza e di sopravvivenza;lo spettatore entra in gioco e diventa attore. Gioco per eccellenza è quello del padiglione polacco le cui pareti sono completamente rivestite di dadi da gioco; al centro della sala il fruitore deve gettare sei dadi sul tappetino verde e ritrovare la stessa combinazione sulle pareti tra le 46.656 possibili; un gioco in cui vincere è un’impresa, perdere è quasi automatico, ma nella maggior parte dei casi non ci si mette neppure in gioco, e forse la sfida è proprio questa. Nella “casa” dell’Olanda il verde tappeto da gioco lascia il posto ad un tappeto di terra sul quale ci si deve “sporcare le mani”; armati di lama e scopetta ci si dispone alla collaborazione o al conflitto con l’altro, per segnare e di-segnare la terra (o forse Terra con la maiuscola?) proprio a partire dall’intervento dell’altro, dalle linee che traccia o da quelle che cancella. Stessa disposizione per l’evento innescato da Rùrì: ogni fruitore innesca l’immagine e il rumore di una cascata o di un corso d’acqua islandese; irrimediabile il fragore della sovrapposizione di effetti visivi e sonori; solo l’intesa fra persone sconosciute porta a disinnescare una ad una ogni cascata, ascoltare il silenzio per poi riempirlo nuovamente. Altro ambiente modificabile dal fruitore una delle sale dell’Arsenale: sulla mappa del mondo ognuno è invitato a segnare un luogo con un timbro di pace. Le scritte col tempo si sovrappongono e determinano una nuova geografia, non politica, non geografica, ma quella dell’intenzione dei visitatori che addirittura si fanno da “seggiola” per arrivare a segnare di pace anche i luoghi più alti e lontani. L’intervento risuona all’unisono con un ulivo ricolmo di biglietti lasciati dai visitatori e con la voce melodiosa di una performer in uno spazio dell’Arsenale, eppure resta lontana ogni forma di pensiero idilliaco. Inchiodate nella mente le immagini di un muro di bellissime e sensuose pastiglie colorate; un cavallo ricucito, i vari ingrandimenti di documenti internazionali di identità sparsi per i giardini e le guardie in divisa che bloccano l’accesso al padiglione 26 a tutti coloro che non sono di nazionalità spagnola. L’atteggiamento più onesto sembrerebbe quello della Maddalena di Berlinde De Bruyckere: i lunghi capelli, nel coprire di pudore il volto e la coscienza, custodiscono il riscatto e la conversione. Una con-versione sul mondo, percepito,urtato,gridato, trasformato, sognato, costruito, distrutto, e poi? Il poi è di domani; dell’oggi l’intenzionalità senza veli degli artisti nel mostrare ciò che spesso sfugge agli occhi; ciò che sta sotto, ciò che sta dentro al nostro stare al mondo. Sogni e conflitti. La dittatura dello spettatore, 50ª Esposizione Internazionale d’Arte- Venezia. Fino al 2/1I.