Incontro o scontro?

Cent’anni fa i Borghese vendevano allo stato italiano la loro celebre palazzina, dove il cardinale Camillo, fanatico raccoglitore d’arte s’era organizzata una dimora – e una vita – “maravigliosa”, come si diceva nel secolo diciottesimo. Fra Raffaello, Perugino, i veneti e i contemporanei, specie il prediletto Caravaggio, l’ambiente ricco di marmi e di stucchi ben si prestava alla ricreazione di un mondo di bellezza e di splendore. Perciò, il cardinale non si stupirebbe forse della rassegna attuale, che vede “in dialogo” con Perugino Botticelli Rubens ed altri, autori del nostro tempo come Clemente, Accardi, Paladino e compagni: a cercare, conversando idealmente attraverso le loro opere, spunti per il futuro, insieme alla riflessione sul cammino dell’arte finora percorso dalla storia. L’idea, in sé, non è originalissima: già tre anni fa la National Gallery a Londra organizzò una rassegna Encounters, New art from Old in cui ventiquattro artisti contemporanei si confrontavano con altrettanti maestri esposti nel museo inglese. E, del resto, da sempre il dialogo fra generazioni di “facitori d’arte” è quasi una normalità: si pensi, ad esempio, alla rivisitazione della classicità da parte di un Picasso o di un De Chirico. Pure, la rassegna nostrana offre almeno due punti di novità: il luogo, definito all’estero “il più bel museo del mondo” – cosa che non si può dire, in verità, dell’ottocentesca National Gallery; e i sette artisti selezionati, ognuno dei quali rappresenta altrettanti modi di far arte in Italia negli ultimi decenni. Non è facile astrarsi, alla Borghese, dalla quantità dei capolavori esposti per entrare nella struttura architettonica che, come un hortus conclusus, avvolge – e protegge – questa foscoliana “corrispondenza di amorosi sensi” che dovrebbe nascere fra gli spiriti degli artisti in dialogo e noi, spettatori-attori di questo conversare, oltre il tempo ed oltre la storia: pur essendo nel tempo e nella storia. Carla Accardi interpreta con campiture cromatiche delicatissime la pace intima della Madonna col bambino di Giovanni Bellini: alla calma extratemporale del Veneziano risponde astraendo le forme in “segni” dal dinamismo ricorrente, fluttuanti in spazi che debordano dalla cornice. Libertà della fantasia e del simbolo, un gioco virtuosistico che, più che esprimere l'”anima” (termine abusato, ma efficace ancora) tocca l’emozione sensibile. Certo, il Rinascimento appare oggi più che mai un sogno lontano, ma l’aspirazione all’unità che esso esprimeva rimane tuttora valida. Francesco Clemente vi si confronta quasi con aggressività: il suo acquerello Ritratto di Aldo Busi propone un primissimo piano dello scrittore, dallo sguardo cupamente teso. La risposta del Ritratto di gentiluomo di Raffaello è quella di una virilità robusta e tranquilla: condensata nell’ampiezza del busto, segno di una maturità raggiunta e posseduta con sicurezza. Il nostro è invece tempo d’ansia: la stupenda Testa di Apostolo di Rubens, pittoricamente espressiva, trova risposta nella Piatta forma (2002) di Enzo Cucchi: una tarsia in cemento e ceramica smaltata a tinte acute (viola, bianco, nero) come l’aguzzo campanile che riecheggia i panorami delle terre di Fiandra. Un sentimento eccitato sottostà al lavoro, una fibrillazione interna riassunta in quel teschio – topos dell’arte di Cucchi – che se da una parte richiama un soggetto assai frequentato nel barocco – il memento mori, il tema cioè della morte – dall’altra è spia di un senso della caducità che percorre i nostri anni, anche se nascosto dalla civiltà dell’apparenza. C’è un dolore, tragico, che infatti ci incombe. Lo riassume Jannis Kounellis in un Senza titolo, dove un tronco di legno (una croce?) sopra il carbone parla di una sofferenza primordiale che mai ci abbandona in un mondo ormai cinico e sfatto. A questa assenza di speranza, risponde l’ultimo David di Caravaggio, dolente teatro della fiducia, specchio di una sofferenza universale nel gesto e nello sguardo lento, ma illuminato da una luce. Se poi Luigi Ontani si autocita nell’Autoritratto, parallelo della Testa d’uomo con turbante di Annibale Carracci, affiancandosi con un’erma BorghEstEtica, in una visione estetizzante della vita; Mimmo Paladino, forse più di altri, risponde con un dialogo “alla pari” col Ritratto d’uomo di Antonello. Chi è quell’uomo del Quattrocento non lo sapremo mai. Certo, comunque, è l’Uomo, natura identica sotto ogni cielo e in ogni momento della storia. Perciò Paladino lo “ricrea”, trasformando l’olio su tavola in una struttura tridimensionale, sospesa fra pittura architettura e scultura: dove il colore rosso mantiene intatta la valenza simbolica (il sangue, cioè la vita) e l’astrazione del volto ne segna l’eternità. Ad un ritratto di un’epoca, ma che mantiene la sua forza, l’artista d’oggi risponde, in forme nuove e personali, che la verità originale sull’uomo permane identica nel tempo. Anche Giulio Paolini giunge al medesimo risultato “attualizzando” il Martirio di san Sebastiano del Perugino. È la stessa atmosfera atemporale, tipica del maestro umbro, a guidare l’opera di Paolini. Solo che le frecce del supplizio sono diventate lo scorrere inesorabile del tempo – martirio della nostra epoca – di un orologio immaginario che a noi, seduti – immobili come il Sebastiano peruginesco – toglie ora dopo ora il “sangue della vita”. Parrebbe un finale drammatico; se non fosse che il chiarore dell’opera ci conduce in una dimensione astratta che pare preludere a mete nuove. Il viaggio dell’artista presente, nel suo confronto (o cimento?) col passato, non può che guardare avanti. Per nostra fortuna.

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