Incontro con Francesco Guccini

In occasione degli 80 anni appena festeggiati dal famoso cantautore, che ha segnato a suo modo una generazione di italiani, riportiamo, nella sua semplicità e immediatezza,  il testo dell’intervista concessa al periodico giovanile Teens da Francesco Guccini nel 2016
Francesco Guccini. Foto LaPresse

Siamo andati ad intervistare Francesco Guccini a Pàvana, frazione di Sambuca Pistoiese, in Toscana, dove si è ritirato da qualche anno, ormai, per tornare nel suo luogo di origine.

Entriamo: una casa semplice, e nella sua semplicità bellissima, stipata di libri, lettere e regali dei fan. Infatti, nonostante la casa sia un po’ nascosta, le visite non mancano mai. Dopo esserci seduti, gli abbiamo fatto qualche domanda. Eravamo a nostro agio e più che un’intervista sembrava una semplice chiacchierata!

Più di un’ora e mezza, spaziando anche oltre le domande. Vi riportiamo le parti più interessanti, buona lettura!

Lei è stato un’icona per molti ragazzi degli anni ‘60/’70. Ai ragazzi di oggi cosa direbbe?
Non sono un guru, non sono mai stato un condottiero di ideologie. Quel poco che ho detto in quasi tutte le mie canzoni, l’ho fatto senza pensare di lanciare messaggi. Una canzone per me generazionale, che voleva parlare cioè a quelli che allora avevano la mia età, nel 1966, è “Dio è morto”.  Questa canzone per me non aveva, come posso dire, indirizzi religiosi ma era un segno di questi tempi che sentivamo dovevano cambiare… in qualche modo.

Come spiegherebbe il ’68 a noi ragazzi che non lo abbiamo vissuto?
Il ’68 è stato un qualcosa che ha rivoluzionato i giovani di allora, nel bene e nel male, un fenomeno importante che doveva esplodere, doveva saltar fuori. Ricordo un verso di Thomas Eliot che diceva: “Voi della mia generazione svegliatevi”; poi con riferimento al Paradiso perduto di Milton è diventato: “O potentati, principi, guerrieri”, per dire che noi di allora volevamo fare qualcosa. Erano desideri giovanili, sogni giovani. Un difetto del ’68 è stata un’eccessiva politicizzazione che ha portato ad avere gruppetti di estrema sinistra e di estrema destra che si contrastavano. Da lì poi sono nati i gruppi armati che sono stati sicuramente un male.

Quali erano le passioni, gli ideali, i sogni che aveva alla nostra età, da adolescente?
Beh, sono sempre stato un grande lettore, leggevo di tutto. Era un periodo in cui tra noi giovani era di moda tutto quel che era americano, inteso come Stati Uniti: quindi film, musica, libri. Poi si andava al cinema, si ballava. Avevo due compagnie: quella di Modena, da cui è uscito qualcuno dei Nomadi o il fumettista Bonvi per esempio.  Questi erano non dico fighetti, ma economicamente più potenti della mia famiglia. Io invece, venendo da Pàvana, avevo amici, diciamo, proletari. Io non avevo nessuna idea di quello che sarebbe stato il mio futuro. Pensavo che, finite le magistrali, sarei andato all’università, sognavo di fare lingue. Poi ho cambiato idea e ho fatto lettere.  Ho avuto un’infanzia normale, abbastanza infelice come tutte le adolescenze, perché non hai mai quello che vorresti avere. Adolescenti… i sogni sono tantissimi e le possibilità di realizzarli, almeno allora, non esistevano.

Come è entrato in contatto con la musica?

Subito dopo la guerra c’era una voglia di divertirsi, di ballare, si ascoltava molto la radio e iniziai a suonare l’armonica a bocca per il fascino di saper suonare qualcosa. Ho iniziato ad ascoltare il jazz, ma di fatto era difficile da suonare, bisognava essere bravi musicisti; alla fine degli anni ’50 è arrivato il rock’n roll che, tutto sommato, era facile da imitare: bastava fare tre accordi e facevi un rock and roll! Ho preso lo strumento più a portata di mano: la chitarra.

Così ci siamo messi a suonare e suonando la chitarra sono venute fuori le prime canzoni e le prime esperienze davanti a un pubblico. Nel ’64 sono tornato dal servizio militare e ho scritto Auschwitz. Poi mi hanno chiesto di lavorare coi Nomadi e così sono entrato nell’ambiente discografico. Sono convinto che i giovani che si affacciano oggi alla ribalta della musica, sia come musicisti che come cantanti, sono molto più bravi di noi allora, perché hanno studiato. Però non so, forse manca un qualche cosa.

Io non ho mai studiato canto, forse si sentiva, però, dai e dai, s’impara anche a cantare e suonare.

 

Testo della canzone del 1966

Dio è morto (se Dio muore, è per tre giorni poi risorge)

Ho visto

La gente della mia età andare via

Lungo le strade che non portano mai a niente

Cercare il sogno che conduce alla pazzia

Nella ricerca di qualcosa che non trovano

Nel mondo che hanno già

Dentro le notti che dal vino son bagnate

Dentro le stanze da pastiglie trasformate

Dentro le nuvole di fumo

Nel mondo fatto di città

Essere contro od ingoiare

La nostra stanca civiltà

È un Dio che è morto

Ai bordi delle strade, Dio è morto

Nelle auto prese a rate, Dio è morto

Nei miti dell’estate, Dio è morto

M’han detto

Che questa mia generazione ormai non crede

In ciò che spesso han con la fede

Nei miti eterni della patria e dell’eroe

Perché è venuto ormai il momento di negare

Tutto ciò che è falsità

Le fedi fatti di abitudini e paura

Una politica che è solo far carriera

Il perbenismo interessato

La dignità fatta di vuoto

L’ipocrisia di chi sta sempre

Con la ragione e mai col torto

È un Dio che è morto

Nei campi di sterminio, Dio è morto

Coi miti della razza, Dio è morto

Con gli odi di partito, Dio è morto

Ma penso

Che questa mia generazione è preparata

A un mondo nuovo e a una speranza appena nata,

Ad un futuro che ha già in mano,

A una rivolta senza armi,

Perché noi tutti ormai sappiamo

Che se Dio muore è per tre giorni

E poi risorge,

In ciò che noi crediamo Dio è risorto,

In ciò che noi vogliamo Dio è risorto,

Nel mondo che faremo Dio è risorto

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