Ho incontrato don Bosco
Don Bosco era un artista nel leggere il cuore dei giovani che lo incontravano per scoprirvi il progetto d’amore di Dio su ciascuno. E i salesiani, suoi figli spirituali, vivono di questo carisma. Tanto che non è raro per un giovane, attraverso l’uno o l’altro di essi, incontrare un don Bosco vivo nel momento decisivo della propria vita.
Così è stato per me.
Era la primavera del ’68, a Lanzo Torinese. Don Mario Colombo, allora direttore dell’Istituto salesiano san Filippo Neri, in cui frequentavo la terza media, m’invitò a fare una passeggiata. Era sempre gioia profonda e segreta stare un po’ con lui. Ormai ci si conosceva da quasi tre anni…
Si camminava lungo il viale di tigli che delimitava il cortile esterno dell’Istituto, là dove poi degradava verso un’aspra e folta foresta di pini. Don Mario – com’era solito fare – teneva le mani l’una nell’altra con le braccia dietro la schiena. Cominciò da lontano per dirmi tre cose che – non so ancora come facesse – leggeva nitide nel mio cuore. «Ti piacerà la filosofia», esordì: quand’ancora appena appena intuivo cosa ci potesse essere dietro quella parola fascinosa e invitante! Ma due anni dopo, in prima liceo, dopo aver partecipato alla prima lezione di storia della filosofia impartita da un altro grande artista salesiano nel trasmettere il senso e il gusto del vivere e del pensare, don Franco Amerio, presi d’impeto la decisione che quella sarebbe stata la mia strada. Come lo fu.
Don Mario mi disse poi che Gesù si aspettava qualcosa di più da me. Ero un bravo ragazzo – è vero –, ma di spirito un po’ borghese m’accontentavo di riuscire bene a scuola, d’essere benvoluto, di cimentarmi nell’arte del teatro, di approfondire con passione la storia e le questioni della politica, di accarezzare le prospettive di un roseo futuro. Quella frase la conservai, misteriosa e interpellante, in cuore. Sin quando, solo qualche mese più tardi, cominciai ad avvertirne il senso. Stavo partecipando, per la prima volta, a una Mariapoli, a Bergamo. Gesù – con dolcezza e insieme prepotentemente – entrò nella mia vita. Era la svolta.
Don Mario, infine, tirò fuori la terza cosa che aveva in serbo: «Vedi – disse –, l’amore che portiamo nel cuore può scorrere, come in un canale, in tante direzioni: nel farsi una famiglia, nel servire la società, ma anche nel donarsi tutto a Dio e agli altri… Forse nessuno te l’ha mai detto, ma io ti vedrei bene come sacerdote». Avevo 13 anni. Don Mario aveva letto nel mio cuore, in cui poco a poco, non senza ostacoli, dubbi e resistenze, si faceva strada proprio quella chiamata.
Di anni ne sono passati più di 50 da quel giorno, che come fosse solo ieri porto scritto a caratteri d’oro nel cuore. Il 16 ottobre scorso, un giovane salesiano, Stefano Mazzer – che ha discusso uno splendido dottorato a Sophia sul “Nulla-tutto” dell’amore tra filosofia, mistica e teologia –, mi ha comunicato che nella notte don Mario era entrato per sempre in Cielo. L’avevo rivisto a giugno, di passaggio a Torino, nell’infermeria di Valdocco – la casa madre della famiglia salesiana, a fianco della Basilica di Maria Ausiliatrice –, dove da alcuni mesi era ricoverato. Allettato, e con qualche difficoltà nella memoria, ma con la stessa luce negli occhi e lo stesso slancio nel rapporto con tutti.
Non ho potuto non chiedergli la benedizione. Che ora porto con me come viatico prezioso. Perché, da quel lontano giorno, don Mario non ha cessato di accompagnarmi passo passo. Ci siamo risentiti nei momenti cruciali della vita. Di tempo in tempo passavo a visitarlo. Conservo un suo biglietto d’auguri di tanti anni fa, in cui – mi pare di sentire ancora la sua inconfondibile voce – scriveva: «Piero, sempre avanti, in cordata con don Bosco e con Chiara!».
Lo avevo reso partecipe della scoperta del Carisma dell’unità. Che tra l’altro – com’ebbe a confermarmi una volta Chiara stessa – era stato decisivo perché si realizzasse anche quella terza cosa che don Mario aveva letto, da Dio, nel mio cuore. Sì! Ho incontrato don Bosco: o meglio, attraverso un suo figlio Gesù m’è venuto incontro.