Incidente in montagna

Un masso lo investe sul ghiacciaio dei Forni salendo verso la cima Vioz nel Trentino. La frattura, il trasporto in elicottero e una nuova scoperta

Ramponi, picozza, scarponi. Scricchiolii ruvidi sul ghiaccio. Passi cadenzati sul manto bianco. Il vento leggero spinge in avanti, in salita verso cima Vioz del gruppo alpino del Cevedale. A quota 3050 metri il sole splende, solo qualche bizzarra capriola di nuvola rende il paesaggio più chiaro e più ombrato.

Bruno Armanaschi, esperto di montagna, attacca con decisione, con il suo nipote Walter, a cui ha voluto regalare questa gita come premio per la sua rendita scolastica. L’aria è frizzante, le 12 punte dei ramponi affondano con facilità nella neve vecchia mista a ghiaccio. Attraversano l’area di confine tra Lombardia e Trentino, una sottile linea rossa insanguinata dalla Grande guerra, la “guerra bianca”, nel cuore del ghiacciaio dei Forni dove il vicino rifugio Mantova era sede del comando di settore dell’impero austro-ungarico: una delle postazioni più alte e più importanti dell’intero fronte dotata, nel 1915, di un doppio impianto teleferico.

Mentre marciano sicuri, Bruno scruta a Nord Est per individuare la via migliore per arrivare alla vetta di 3644 metri ostacolata da crepacci e ghiacciai pensili. Un fronte vasto, delimitato da una morena e una zona di accumulo. «Quando – ricorda Bruno – ho visto un grande masso cadere verso di noi. Non mi sono preoccupato perché scivolava sul ghiaccio, ma manteneva la direzione. Diverso sarebbe stato se fosse saltato qua e là sulle rocce perché la direzione sarebbe cambiata continuamente».

Un colpo d’occhio attento è sufficiente per osservare, valutare e spostarsi. A metà della sua corsa il masso sparisce alla vista, probabilmente una cengia, un ripiano. Ricompare di nuovo. Forse colpisce un altro sasso, si spezza in due e precipita di piatto come un disco volante in due direzioni opposte.

«Anche questa volta non ero preoccupato. Mi sono spostato 5 metri lateralmente per evitare la traiettoria». Un sibilo appena avvertito e l’impatto è violento. Bruno vola in aria e ricade di schianto sul duro strato come su uno specchio di marmo. Non riesce a muoversi. La gamba destra è piegata sotto il gluteo, con i ramponi conficcati nel ghiaccio. La gamba sinistra è distesa, lunga, sul freddo della neve. «Sono seduto, arrabbiato, senza riuscire ad alzarmi, il dolore è acuto, intenso e non accenna a diminuire. Capisco che è un incidente grave».

Un picchiettio costante, come il battere di un chiodo su un nervo scoperto. È una fitta che altera  il respiro, il battito cardiaco, offusca i neuroni, uccide l’umore. Bruno si svincola dalla corda, spiega a Walter la via di fuga del ghiacciaio e dove recarsi per cercare i soccorsi. Lo scruta da lontano ma non lo vede più. Walter scivola leggero sul ghiaccio, raggiunge quota duemila metri e avvisa l’elisoccorso di Trento. L’elicotterista non ascolta le indicazioni di Walter che era fornito di carta topografica con le coordinate e l’altitudine. Il vento cambia. Le nubi sparse si aggrovigliano, si scuriscono, si addensano e schermano il sole. L’elicottero vaga nel cielo, c’è  poca visibilità e torna a valle per un nuovo rifornimento. Bruno resiste, sono già trascorse due ore.

Ha una frattura esposta al femore, la gamba s’irrigidisce, subentrano i crampi. «Mi sembrava come se l’osso tagliasse il muscolo». Nel secondo viaggio Walter è a bordo dell’elicottero e può guidarli fino al luogo dell’incidente. Scendono due operatori sanitari. Bruno scivola nella barella. È imbracato e issato su con il verricello, una sorte di argano che lo tiene legato all’elicottero con una fune anche se è sospeso nel vuoto, con la barella leggermente inclinata che segue il mezzo di soccorso. Sono trascorse tre ore. Lo sguardo di Bruno è rivolto verso l’alto, tra il rumore del motore e lo stridore interiore di chi si sente abbandonato da Dio. Non è neanche imbracato bene, comincia a scivolare, ma ha le braccia legate. Si libera con fatica e si tiene con le mani alla fune, così fino a valle e poi, dopo una sosta, in cui è inserito dentro l’elicottero, fino al pronto soccorso.

«In quei momenti cercavo Dio e non lo trovavo. Ero arrabbiato e in lotta con Lui. Pensavo di morire, non riuscivo a prepararmi, a pregare e non avvertivo la sua presenza dentro di me. Ci sei o non ci sei? Sei vero o no?». A Trento, in ospedale, attende per un’ora in barella in un corridoio aspettando per le radiografie. Gli operatori litigano su chi sia il proprietario della coperta che lo copriva, se del pronto soccorso o dell’ospedale. Passano medici e infermieri. Sbattono incidentalmente contro la barella e proseguono.

La frustrazione è massima. «Mi sentivo carne da cannone, carne da macello, abbandonato anche dagli uomini. Ero disperato. Poi, di colpo, mi è salito dentro un senso di dolcezza, di amore e mi sembrava di sentire dentro una voce che mi diceva: “Ma tu cosa cerchi, non lo sai che fai già parte della famiglia?”. Da quel momento non mi sono più sentito sbattuto a destra e sinistra. Mi sentivo un figlio di Dio. Non mi interessava più vivere o morire perché mi sentivo parte di una grande famiglia che univa cielo e terra». Quel che segue è ormai ordinaria amministrazione  perché qualcosa è cambiato. Radiografie, operazione, ingessatura. Dopo 8 mesi un nuovo intervento chirurgico per aggiungere una piastra e le viti. Un calvario durato due anni. Una risurrezione compresa in pochi secondi.

Il sasso è precipitato per un cambio di temperatura. Prima la neve, poi il ghiaccio della notte che fa aumentare il volume dell’acqua e fa spostare il masso dalla sua posizione anche se rimane fermo. La mattina seguente il sole, il ghiaccio si scioglie e la pietra rotola. «In montagna – conclude Bruno –  non bisogna dare per scontata neanche una passeggiata su un prato e occorre sempre prepararsi adeguatamente».

 

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