Come incide la guerra sulla spesa pubblica? Intervista a Massimo D’Antoni

Un dialogo sulle scelte strategiche del nostro Paese davanti alla decisone del governo di aumentare le spese militari. Il ruolo dell’Europa e i settori decisivi dove investire per rompere la nostra dipendenza energetica da ogni tipo di regime autoritario. Intervista a Massimo D’Antoni, professore di Scienza delle Finanze all’Università di Siena
spesa pubblica
Guerra e spesa pubblica (AP Photo/Grigoris Siamidis)

Ben prima della guerra in Ucraina, l’esecutivo Draghi ha esplicitato più volte la necessità di aumentare le spese per la difesa. L’accordo di compromesso trovato con i 5 Stelle ha avuto solo l’effetto di posticipare al 2028 il raggiungimento del 2% del Pil per questo settore. Come incide tale scelta a livello di spesa pubblica? In sostanza la crescita delle spese in armamenti comporta la necessità di fare tagli in altri settori sensibili come la scuola o la sanità?

Abbiamo chiesto il punto di vista di Massimo  D’Antoni, professore associato di Scienza delle Finanze presso il Dipartimento di Economia Politica e Statistica dell’Università di Siena.

Cosa comporta a suo parere l’aumento delle spese militari nelle scelte strategiche del nostro Paese?
Di aumento delle spese militari si parla da tempo, ma il conflitto in corso ha offerto l’occasione per passare ai fatti. È scattato una sorta di riflesso condizionato, l’irrompere della guerra in Europa è stata vista come una giustificazione al riarmo. Eppure il nesso è tutt’altro che ovvio e la sua domanda è posta nel modo corretto: il tema andrebbe affrontato a partire da una visione strategica. Dovremmo quindi preliminarmente interrogarci su questioni di enorme importanza: qual è l’assetto globale che immaginiamo nel prossimo futuro? Quali sono all’interno di tale assetto i ruoli della Nato, dell’Unione europea e del nostro Paese? È chiaro che il conflitto in corso e il suo esito segneranno profondamente ciascuno di questi aspetti. Andiamo verso un mondo bipolare retto da una logica di reciproca deterrenza come durante la Guerra fredda? Immaginiamo che conflitti come quello in corso possano diventare più frequenti in futuro e richiedere quindi un nostro intervento? Oppure il riarmo europeo è funzionale a una maggiore autonomia del nostro continente rispetto agli Stati Uniti? Non mi pare che questi temi siano stati dibattuti in modo aperto e credo che anche l’opposizione al riarmo, per non restare posizione puramente di principio, dovrebbe confrontarsi con queste domande.

Con tali premesse, quale potrebbe essere, a suo parere, una linea di condotta coerente da parte del nostro Paese?
Finora il livello di spesa militare dei grandi Paesi è andato di pari passo con il loro peso strategico anche in relazione alle posizioni di vincitori o vinti nella guerra mondiale. La spesa degli Stati Uniti è circa il 3,4% del Pil, quella di Regno Unito e Francia è di poco superiore al 2%, mentre la spesa di Germania e Italia, i Paesi sconfitti, non supera l’1,5% del Pil. Allora un primo ragionamento potrebbe essere questo: l’aumento di spesa potrebbe significare, pur nel contesto di una relazione di amicizia, una maggiore autonomia dei Paesi europei rispetto agli Usa nel condurre la propria politica estera? Magari con la capacità di svolgere un ruolo diverso in alcuni scenari, come quello mediorientale? Insomma, un ruolo come quello che a volte ha provato a giocare la Francia. Può accompagnarsi a un progressivo smantellamento delle basi americane in Italia e in altri paesi? In un’ottica del genere riuscirei a trovare delle ragioni in positivo, ma se è solo un invito a contribuire a una linea di politica estera e militare determinata oltreoceano e spesso improntata a obiettivi discutibili i dubbi aumentano.

Il tutto non è legato alla questione della difesa comune europea?
In Italia si tende a evocare l’Europa in modo un po’ ingenuo, come se portare il problema a livello europeo magicamente dissipasse ogni difficoltà. Già qualcuno ha notato che centralizzare la spesa semmai potrebbe giustificare una sua riduzione a livello di singoli stati, perché si potrebbero evitare duplicazioni e sfruttare meglio le possibili economie di scala. Ma ancora una volta mi chiedo: qual è l’obiettivo? Non sono un esperto, ma credo che la centralizzazione sia una soluzione appropriata se l’obiettivo è quello di disporre di una forza di intervento proiettata verso l’esterno. In un’impostazione più difensiva riterrei al contrario preferibile una valorizzazione del rapporto col territorio, con il massimo di decentramento. Il nostro livello di spesa è inferiore a quello americano ma è già sufficiente per le esigenze difensive, quindi qual è l’obiettivo? Sono rimasto affezionato all’idea di un continente pacifico che opera per la pace, anche se mi chiedo sempre più se non sia un mito.

Alla fine non dipende tutto da chi comanda concretamente in Europa?
In effetti c’è il grosso problema della governance della difesa europea. È stato fatto notare che difficilmente la Francia (che è anche l’unica potenza nucleare nella UE) accetterebbe di mettere la propria forza militare sotto il comando di altri, magari la Germania. La verità è che la difesa è da sempre inseparabile dalla sovranità statuale e qui avremmo un esercito senza ancora avere uno stato, senza una vera unità politica. Da economista mi vengono in mente le difficoltà di realizzare una “moneta senza stato” con l’adozione dell’euro, cioè di realizzare un’unione monetaria senza un’unione fiscale e politica. In quel caso la soluzione, che molti economisti ritengono problematica, è stata affidare la gestione della risorsa monetaria comune a un organismo che, almeno sulla carta, è tecnico e indipendente dalla politica. Faccio fatica a immaginare che si possa realizzare una soluzione analoga per la difesa. Insomma, parlare di una difesa comune quando sembra mancare anche una visione di politica estera comune sembra il classico carro davanti ai buoi.

Qualcuno ha sottolineato che le spese militari potrebbero giovare all’economia…
Dalla crisi degli anni Trenta in effetti si uscì anche con la spesa militare, ma spero proprio che la prospettiva non sia questa. È vero che spesso gli investimenti nella difesa possono determinare importanti e positive innovazioni in campo tecnologico. Pensiamo solo a internet, che nasce negli Usa come progetto in ambito militare. Dipende però di quale spesa parliamo, visto che spesso nel nostro caso si tratta di comprare tecnologie sviluppate altrove (vedi i caccia bombardieri F35). Ma, soprattutto, ci sono altre emergenze più “pacifiche” che potrebbero avere analoghe ricadute in termini di rilancio tecnologico: penso a tutto il tema della riconversione energetica.

È quello che ci ha detto l’economista Leonardo Becchetti nel senso che occorre investire di più sulle fonti rinnovabili per liberarci dalla dipendenza verso l’estero, gas russo o di altri.
Becchetti ha ragione, ed è bene sottolineare che il problema non è solo la Russia. Stiamo vedendo che in questi giorni, per non approvvigionarci dalla Russia, il nostro governo si rivolge a Stati non meno autoritari e repressivi. Del resto, ci sono molti studi che sottolineano come i Paesi in cui la risorsa dominante è il petrolio, la democrazia faccia particolarmente fatica ad affermarsi. Questo perché le rendite create dal petrolio determinano concentrazioni di potere economico e svincolano il governo dal prelievo fiscale e quindi dalla necessità del consenso. Il petrolio deprime anche le reali possibilità di sviluppo di questi paesi. Potremmo dire che affrancarci dalle fonti di energia fossile potrebbe alla fine giovare anche alle popolazioni dei Paesi produttori.

Infine, da uomo di cultura attento a quanto avviene nella società civile, come valuta il clima generale che accompagna questa fase della nostra storia collettiva?
Oltre alla tragedia della guerra e al rischio concreto che il conflitto si estenda, avverto effetti tossici anche sulla qualità del dibattito pubblico. C’è una spaventosa polarizzazione, per cui le posizioni vengono assolutizzate in una logica binaria: bianco/nero, bene/male, verità/menzogna. Ovviamente c’è un Paese aggressore e un altro che ha aggredito, ma noi, che abbiamo la fortuna di non essere direttamente coinvolti nel conflitto, dovremmo evitare certi toni da propaganda di guerra. Qui chiunque prova ad articolare un ragionamento per immaginare una soluzione che non sia l’annientamento dell’avversario passa per disfattista o “amico di Putin” e questo è assurdo. Ci manca poco che non accusino di putinismo il papa, perché continua a invocare la strada del negoziato e a dire una cosa ovvia, cioè che questa guerra non si può risolvere con le armi. Ecco, questo clima mi preoccupa, anche perché la guerra mi sembra avere acuito una tendenza ad estremizzare le posizioni che vedevo in atto da tempo. Credo che, come cattolici, dovremmo impegnarsi proprio a contrastare la tendenza a fare della guerra una specie di guerra santa contro l’Impero del male. Abbiamo un vantaggio: la consapevolezza che il male è presente in tutti noi ma in tutti noi c’è anche la possibilità di redenzione.

 

Sostieni l’informazione libera di Città Nuova! Come? Scopri le nostre riviste, i corsi di formazione agile e i nostri progetti. Insieme possiamo fare la differenza! Per informazioni: rete@cittanuova.it

——————

I più letti della settimana

Il sorriso di Chiara

Guarire con i libri

Voci dal Genfest

Abbiamo a cuore la democrazia

Quell’articolo che ci ha cambiato la vita

Edicola Digitale Città Nuova - Reader Scarica l'app
Simple Share Buttons