Incendi forestali in Bolivia
Continuano gli incendi forestali che hanno ormai ridotto in cenere più di 2 milioni di ettari in Bolivia, facendo strage di migliaia di animali delle specie più varie. Le fiamme si sono sviluppato in modo così rapido che, spesso, persino gli uccelli non sono riusciti a mettersi in salvo. Nella zona protetta del Chaco boliviano, vicino al Paraguay, dei boschi di Ñembi Guasú (in lingua guaraní, il gran rifugio) si parla di lutto collettivo.
Lungo centinaia di chilometri, non si vedono che cadaveri di animali bruciati, anche quelli più scattanti, come orsi formichieri, roditori, lepri e conigli capaci di mettersi in salvo rapidamente ma che non hanno superato la velocità delle fiamme. Figurarsi i serpenti e le tartarughe, i cui resti appaiono ai piedi dei resti fumanti degli alberi in uno spettacolo triste e spettrale.
Gran parte del fuoco si è sviluppato nella Chiquitania. Siamo in zona subtropicale, avvolta da settimane da grandi venti che rendono poco efficace l’intervento di migliaia di pompieri e dei giganteschi aerei super tanker, capaci di lanciare più di 75 mila litri di liquido ad ogni volo. Sono due i velivoli di questa taglia ad intervenire nei settori più difficili, insieme a un elicottero pure gigantesco e ad aerei giunti in soccorso dal lontano Canada.
Questo disastro non è solo naturale, ma è frutto di una combinazione letale: le condizioni climatiche e l’inesperienza, se non l’ignoranza, insieme all’avidità che hanno consentito di procedere alla deforestazione. Il successivo incendio delle sterpaglie è rapidamente sfuggito di mano ai coltivatori senza esperienza e a produttori agricoli industriali desiderosi di espandere la frontiera dei terreni coltivati. Da vari settori della società civile, compreso l’episcopato, si segnala che il problema è duplice. Prima di tutto, l’adozione di un decreto del governo per permettere la deforestazione, che indirettamente ha favorito chi agisce senza scrupoli inseguendo lauti guadagni. Circostanza alla quale si è aggiunta la politica di favorire la presenza di coloni provenienti da altre zone del Paese, famiglie provenienti da regioni urbane e un tempo dedite al lavoro nelle miniere, che non hanno una tradizione agricola alle spalle, non conoscono i boschi ed il modo di averne cura.
Le comunità indigene, che di tale sapere ne hanno, non sono state consultate. Ci sono infatti denunce contro coloni che hanno impedito l’accesso delle squadre di pompieri per far fronte alle fiamme ostacolandone l’opera. Il che fa pensare a una responsabilità diretta proprio di questi nella moltiplicazione dei focolai di incendio, più di mille in certi momenti.
Lo ha segnalato con energia la Conferenza episcopale in un comunicato della settimana scorsa nel quale ha rilevato che il decreto in questione non si è basato sulle necessarie conoscenze e su un’analisi a fondo del terreno. Ci sono “seri indizi” secondo i vescovi che non si sono presi in considerazione gli interessi della “casa comune”, i principi basilari dell’etica ecologica ed il sentire dei popoli indigeni. La mancanza, poi, di un dibattito nazionale, induce a sospettare che abbiano influito altri interessi.
Sebbene il presidente Evo Morales abbia lanciato un appello affinché i Paesi che condividono il territorio amazzonico si coordino nella cura dell’Amazzonia, di cui la Chitania è parte. Pare logico che in casa propria sia imprescindibile dar vita a un dibattito sulla questione delle risorse naturali e del patrimonio boschivo. Anche perché in tali zone vivono numerose comunità di popoli originari che hanno una loro voce. In questi anni non è sempre stata ascoltata dal governo, che ha invece dato più spazio alle rivendicazioni delle minoranze quechua ed aymara. In un Paese dove il 66% si riconosce di origine indigena, diventa essenziale ascoltare la voce di tutti. Ma proprio tutti.