In viaggio per ritrovare i propri figli
Sono 250 quelli segnalati dalle famiglie, ma le stime più larghe arrivano a quasi 900: sono i migranti partiti dalla Tunisia lo scorso marzo, e di cui non si è più avuta notizia. Non sono, con tutta probabilità, tra gli oltre 1500 che – secondo l’Alto commissariato delle Nazioni Unite per i rifugiati – hanno perso la vita nel Mediterraneo: per buona parte di questi ci sono prove dell’approdo sulle nostre coste, perché identificati dai familiari nelle immagini girate dai telegiornali – uno di loro avrebbe rilasciato addirittura un’intervista –, riconosciuti in fotografia da operatori dei Centri di identificazione ed espulsione (Cie) o dai compagni di “detenzione”. Ma poi, nessuno sa più dire dove siano finiti.
I familiari hanno dapprima fatto pressione sulle autorità tunisine, con lettere, manifestazioni e sit-in, perché si attivassero per rintracciare i propri cittadini; ma di fronte a quello che hanno definito «un muro di gomma», associazioni italiane e tunisine – tra cui la Pontes dei tunisini in Italia, il collettivo milanese Le Venticinqueundici e la Lega dei diritti umani tunisina – a maggio hanno unito le forze per farsi sentire, con la campagna “Da una sponda all’altra: vite che contano”. La loro richiesta alle autorità dei due Paesi, sostenuta da una raccolta di firme, è semplice: uno scambio di impronte digitali, come quotidianamente avviene con Paesi terzi per le procedure di espulsione, così da incrociare i dati dei migranti identificati nei Cie con quelli del ministero dell’Interno tunisino, che dispone di quelle di chi richiede la carta d’identità.
Eppure, nonostante una lettera al governo Monti del sottosegretario alle Migrazioni tunisino – un nuovo ministero, creato ad hoc – in cui si esortava alla collaborazione sul fronte delle politiche migratorie, diverse missive ai ministeri degli Esteri e degli Interni di entrambi i Paesi, e una al ministro Riccardi, ancora non si è ottenuto nulla: da un lato le autorità tunisine si rifiutano di fornire le impronte, dall’altro quelle italiane sembrano non saper davvero gestire le informazioni relative a chi passa per i Cie.
Così, il 28 gennaio, una delegazione di familiari – una madre, un padre e uno zio di ragazzi dispersi – sono arrivati in Italia, per cercare di persona i loro cari. Città Nuova li ha incontrati a Roma, seconda tappa del loro viaggio, dopo la Sicilia. Il governo tunisino aveva dapprima pagato loro il biglietto, ma poi, riferiscono, ha sconfessato l’appoggio alla loro iniziativa: «A Palermo ci siamo trovati a dormire in strada oppure nella moschea – raccontano – e qui a Roma soltanto le associazioni di volontariato ci hanno accolti».
Quella del loro viaggio in Italia è una storia di porte chiuse in faccia: «Il console tunisino di Palermo ci ha riferito di non sapere nulla di questa vicenda – riferiscono – e temiamo ci siano state pressioni da parte delle autorità tunisine perché tacesse». Più fortuna sul fronte delle istituzioni italiane, che hanno consentito loro l’ingresso al Cie di Trapani, ma non a quello di Caltanissetta. La situazione era inoltre complicata dal fatto che, come riferito loro in questura ad Agrigento, le impronte erano state raccolte non all’arrivo, ma dopo lo smistamento nei centri: più lungo e laborioso, dunque, risalire ai migranti in questione.
Di fronte a un nulla di fatto in Sicilia, si sono spostati a Roma per rivolgersi direttamente all’ambasciata tunisina: «Ma la risposta che abbiamo ricevuto – riferiscono – è stata “non è un nostro problema”, e non siamo stati ricevuti. Davvero sapere che “non interessi” è la cosa più dolorosa». Sono stati invece ricevuti al Viminale, che ha assicurato che già dallo scorso luglio è in corso uno scambio di informazioni con le autorità tunisine, ma soltanto tramite una lista di nomi: «Il che ci dice – osservano – che i Paesi sono pronti a collaborare quando si tratta di espellere, ma non di identificare. Solo con una lista di nomi non si va lontano».
Intanto, fra sei giorni, il loro visto scade, e si pone il dubbio amletico: «Come potreste tornare indietro, sapendo che vostro figlio è qui? Devo rimanere da clandestina per cercarlo?», chiede ai presenti una madre. Un padre, che mostra ossessivamente la foto del figlio con altri ragazzi su un barcone tratta da un servizio del Tg5, afferma: «Questi li conosco tutti, li ho accompagnati io alla partenza. Sono arrivati, so che sono qui».
A portare avanti la loro causa, oltre alle associazioni italiane, saranno anche due avvocati romani, che stanno studiando il caso per capire come sia possibile agire sul fronte legale. Almeno una cosa buona, però, se la riportano a casa: «Qui abbiamo trovato un sostegno morale che non abbiamo visto in Tunisia, dove pur si parla tanto di questa vicenda». «Durante la dittatura – spiega la ragazza che fa da interprete – non si potevano cercare i familiari, perché si veniva accusati di sostenere l’emigrazione: ora anche questo è un segno di democrazia che sta nascendo dal basso».