In Turkmenistan si vive!

Visitando la giovane e piccola comunità di Ashgabat. C’è il Vangelo, e poco altro.
Bimbe di Ashgabat

È un uomo piccolo, sereno, sempre pronto ad ascoltare e ad incoraggiare: mons. Andrzej Madej da tredici anni è in Turkmenistan. L’episcopio-parrocchia-nunziatura-comunità si trova nel centro della città. È modesto e non sbandiera alcun segno di ricchezza: la cappella, per una cinquantina di persone al massimo, i locali parrocchiali, gli alloggi per alcune collaboratrici, la comunità degli Oblati di Maria Immacolata di cui fa parte, una comunità composta peraltro da due persone solamente. Oggi dal vescovo e da un giovane diacono di 27 anni, Raffaele, anch’egli polacco, per un anno da queste parti. A cui dovrebbe aggiungersi ben presto un secondo sacerdote, padre Diego.

Tutti i presenti m’accolgono con grande cordialità, direi con calore, sull’esempio della loro guida spirituale. Qui tutto sembra Vangelo. Vissuto. Anche la signora che non vuole che il figlio sposi una musulmana e che chiede consiglio al vescovo fa parte di questa famiglia; anche la donna anziana che si chiama Regina e che lo è di fatto per l’amore che trasmette nonostante la sua mole e il bastone che la sorregge a malapena… C’è poi il signore che vuol far pregare per la figlia che va per conto suo, c’è il giovane in ricerca di vocazione, c’è il matto che mette a dura prova la pazienza dei presenti… C’è il popolo di Dio. Piccolo, piccolissimo. Ma c’è.

 

Il vecchio Muhammad

 

Padre Andrzej racconta: «Il vecchio Muhammad veniva spesso in parrocchia. Un giorno mi chiede di pregare per un caro defunto assieme a lui. Accetto. Avvicinandoci a casa del morto, condivido un mio pensiero: “Muhammad, tu cominci e io finisco la preghiera”. Così il vecchio musulmano inizia la preghiera in russo e la termina in lingua turkmena. La prima parte la capisco, e quindi mi dico: “Cosa dovrei aggiungere come cristiano? Nulla”. Muhammad ha detto le parole giuste, ha chiesto la misericordia di Dio per l’anima del defunto e il conforto per la sua famiglia. “Posso solo dire amen”, concludo. Ma poi ho un’intuizione: “Posso dire anche: “per Cristo nostro Signore”. Ho capito quel giorno la cosa più importante nel dialogo interreligioso: la nostra specificità cristiana si esprime in quelle poche parole. Gesù dà originalità alla nostra presenza qui, tutto è suo».

Riceve di continuo telefonate dal mondo intero, padre Andrzej, da gente del posto, molti dei quali stranieri. La sua m’appare già da questi primi approcci una Chiesa veramente “cattolica”, cioè universale. Non sono certo i polacchi a costituire la maggioranza della Chiesa in Turkmenistan: ci sono circa cento battezzati e altrettanti catecumeni, oltre alla presenza di tanti amici che vanno in parrocchia senza volersi far battezzare, musulmani e non credenti. C’è gente di diverse nazionalità e diverse provenienze. «La nostra specificità – continua padre Andrzej – è che dal 1997 fino al 12 marzo scorso eravamo solo un ufficio di nunziatura apostolica, con status diplomatico. Lo siamo ancora, ma ora c’è anche, finalmente, il riconoscimento legale dal ministero della Giustizia come “Chiesa cattolica romana in Turkmenistan”. Riguardo alla nostra diffusione, la comunità di Ashgabat è ovviamente la più grande, ma abbiamo delle famiglie anche a Turkmenbashy, a Mary e, qua e là, in altri villaggi e città».

 

Un bilancio, una grazia

 

Dopo 13 anni, che bilancio trarre dalla presenza in Turkmenistan? «È la più grande grazia ricevuta nella mia vita quella di partecipare alla nascita di una Chiesa: la Parola di Dio convoca la Chiesa e così dà vita alla comunità dei credenti. Il nostro è un profilo di evangelizzazione, leggiamo la Parola dappertutto. Ultimamente abbiamo cominciato pure una certa “pastorale dei sacramenti”, ma la proclamazione della Parola è sempre prioritaria. I catecumeni scoprono Dio e il suo amore, così come il senso del peccato e della grazia».

Ma c’è un secondo elemento che padre Andrzej vuole esprimere nel tracciare il bilancio di questi tredici anni: «È l’esperienza della cattolicità: siamo di diverse provenienze e nazionalità, lo Spirito Santo ci dà questa varietà. Ogni domenica celebriamo l’Eucaristia in inglese, con la presenza di fedeli di quindici nazionalità diverse: egiziani, filippini, polacchi, italiani, statunitensi, coreani… Più in generale posso dire che s’è instaurato un buon rapporto con il popolo del Turkmenistan, con vicini, amici, e anche a livello politico. Da tredici anni faccio parte, infatti, della comunità dei diplomatici, anzi sono ormai il loro decano. Alla nostra tavola è frequente vedere una povera donna seduta accanto a un ambasciatore. Questo è bello».

Padre Andrzej è felice soprattutto per la riconoscenza della gente, che attraverso la Chiesa cattolica ha anche la possibilità di allargare le proprie visuali: «Ogni anno facciamo qualche pellegrinaggio, ad esempio alle Gmg, siamo andati persino a Sidney e a Toronto! Per gli adulti facciamo altri pellegrinaggi, verso la Polonia o a Lourdes. E così, dalla semplice vita di una comunità, stanno nascendo anche alcune vocazioni: una giovane è entrata nella congregazione di suor Faustina, in Polonia; un giovane di Krasnovodsk da quattro anni è nella congregazione degli oblati; una ragazza è con le carmelitane a Kiev; un’altra s’è unita all’Arche di Jean Vanier… Ed Ela, una giovane di origini ebree, sta cercando la sua vocazione».

 

Siamo pochi

 

«Nessuno ci ha mai detto: “Siete troppo pochi”, oppure: “Lavorate lentamente”. Nessuno, nemmeno in Vaticano. Anzi, casomai ci invitano ad avere un basso profilo, “non fate le cose in fretta, lasciate alla gente di scegliere Cristo coscientemente. La nostra presenza è come un segno, come un sacramento di salvezza”. E veramente abbiamo fatto spesso quest’esperienza di essere sale, luce, segno, lievito».

La vita della comunità di Ashgabat è ogni giorno diversa, ogni giorno appaiono nuove occasioni di “lavoro”. Come quella volta che arrivò una coppia turkmena in crisi. In quel periodo nella parrocchia aiutavano alcuni giovani cattolici slovacchi che sono andati a casa della coppia: li hanno incoraggiati, li hanno aiutati, li hanno ascoltati. Ora la coppia ha cinque bambini, e vogliono farsi battezzare (la moglie e i figli), mentre il marito, che rimane musulmano, è d’accordo. Se non ci fosse stato l’incontro con Gesù, ci dicono ora, la loro vita sarebbe andata molto peggio. Non hanno granché, ma hanno una grande gioia di credere, e vengono qui in chiesa come fosse casa loro. I medici tempo fa volevano che la donna abortisse, ma lei non ha voluto e i bambini sono belli e godono di buona salute».

Cos’è che dà unità alla vostra vita? «È Gesù l’unica unità della nostra vita». E come oblati, vi sentite “in vocazione”? «Maria, Bibi Meryem per i musulmani, è un bel ponte per il dialogo». La comunità è importante? «Tutto quello che ci unisce dà inizio alla nostra Chiesa, dai rapporti tra di noi, dall’amore che condividiamo, e la gente se ne accorge».

Dove va la Chiesa in Turkmenistan? «Dio solo lo sa. Ma chiaramente vediamo che dobbiamo rimanerci per convertirci e per pregare per il Turkmenistan. Sì, ci vorrebbero un centro culturale, una cappella più grande e una casa più adatta, anche se recentemente una famiglia italiana in visita ci ha fatto una raccomandazione: “Restate come siete, non costruite una grande chiesa, non allargatevi troppo”. Hanno ragione, la chiesa non è fatta dai muri, non sono prima di tutto le strutture che servono ma la vita e l’amore. Dico solo che possiamo migliorare poco alla volta, badando che lo spirito comunitario rimanga».

 

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Così nasce una Chiesa

 

All’inizio degli anni Novanta, alcuni preti cattolici erano arrivati in Asia centrale, in particolare in Kazakistan, dove ora esiste una Chiesa sviluppata. Un gruppo di cattolici di origini tedesche viveva a Turkmenbashy, sul Mar Caspio; avendo saputo che dei sacerdoti erano in Asia centrale, ma non da loro, scrissero al papa chiedendogli: «Come mai non vengono anche qui?». Giovanni Paolo II girò la lettera al nunzio di Almaty, mons. Marian Oleš, il quale, in auto, si recò fino a Turkmenbashy, anche perché era legato alla città, chiamata Krasnovodsk, avendo lì visto per l’ultima volta suo padre.

Ha fatto rapporto su quella visita al Vaticano, e il papa ha risposto così: «Apriamo la Chiesa in Turkmenistan». Ha incaricato il nunzio stesso di trovare i missionari adatti. Bussò a 27 porte, prima di quella degli Oblati di Maria Immacolata. Padre Marcello Zago ne era il superiore; pensò a Pio XII, che diceva come gli oblati fossero adatti per le evangelizzazioni più difficili. Accettò, e pensò subito che bisognava che i missionari parlassero russo. Si rivolse quindi alla provincia polacca. Il provinciale chiamò padre Andrzej Madej, a Kiev: «Conosci il russo e conosci il mondo post-sovietico – gli disse –, mi sembri adatto». Rispose affermativamente. Nel 1997 arrivò con padre Radoslaw ad Ashgabat.

 

Ricchezza e povertà

 

Di Turkmenistan (4 milioni e mezzo di abitanti, religione musulmana ma mescolata a tradizioni zoroastriane) si può parlare solo dal 27 ottobre 1924, con la fondazione della Tssr (Turkmen Soviet Socialist Republik), ma la storia ci riporta alla metà del III millennio a.C. Una terra contesa tra parti e greci, sassanidi e khorezmshams, mongoli e timuridi, fino a sabanidi e russi. Ma è solo dall’indipendenza del 27 ottobre 1990 che, grazie alla volontà di Atamurat Niyazov, si è scavato nella storia per trovare ragioni e caratteristiche dell’identità turkmena. Sforzi encomiabili, ma poco scientifici. Il Turkmenistan, come d’altronde tutti i Paesi dell’Asia centrale nei loro confini attuali, è in qualche modo una creazione artificiale di marca sovietica. Nella bandiera nazionale sono inseriti i simboli delle cinque principali etnie che compongono la popolazione del Paese.

L’attuale presidente, Gurbanguly Berdimuhamedov, guida un “regime forte”, in un Paese all’85 per cento desertico, ma ricco di straordinari depositi di petrolio e di gas, tanto che elettricità e gas sono gratis. Ma la povertà della gente stride ancora con la potenziale ricchezza.

La capitale Ashgabat, rasa al suolo dal terremoto nel 1948 che uccise più di metà della popolazione, è ancora un enorme cantiere. È stato deciso di trasformarla da “città scura” in “città bianca”, per via dei marmi usati a profusione.

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