In Sud Sudan si rischia la guerra civile
Quest’anno in Sud Sudan abbiamo vissuto un Natale rattristato dagli orribili avvenimenti accaduti nella metà del mese di dicembre a Juba, la capitale del Paese, avvisaglie di un ritorno della più giovane nazione del mondo alla guerra civile. Lo scorso 15 dicembre lo storico disaccordo all’interno del partito dell’Splm (che ha guidato il Paese all’indipendenza due anni fa e lo governa da allora) è sfociato in uno scontro armato a Juba all’interno delle caserme militari, dove si sono fronteggiate le due fazioni, quella del presidente Salva Kiir e quella del suo ex vice Riek Machar e di altri 10 ex ministri ed ex governatori che, negli ultimi mesi, erano stati costretti alle dimissioni dallo stesso premier e che giacevano in prigione. Gli scontri sono durati due giorni provocando oltre 500 morti.
In queste due giornate si è aperta la caccia ai membri dell’etnia Nuer, ora all’opposizione, per ucciderli nelle loro case e quindi con la probabilità di far passare questi incidenti come guerra tribale. Il presidente ha poi fatto arrestare tutti e 11 gli oppositori delle varie etnie con l’accusa di tentato colpo di Stato, ma Riek Machar, che rappresenta la comunità Nuer, è riuscito a fuggire da Juba fermandosi inizialmente col suo esercito a Mongalla (40 chilometri a Nord) per poi spostarsi verso Bor. Continue voci riportano che i ribelli vorrebbero ritornare in forza per un attacco alla capitale. Intanto le forze fedeli all’ex vicepremier hanno conquistato le città di Bor, Bentiu e Malakal, capitali degli Stati di Jonglei, Unity e Upper Nile.
Mentre vi scriviamo Bor e Malakal sembrano essere state riprese dalle forze governative dopo attacchi incessanti. Le notizie sono altalenanti e pendono a favore di una fazione o di un’altra. Bisogna precisare che questi tre Stati, tra i dieci della Repubblica del Sud Sudan, sono quelli delle riserve petrolifere dello Stato ed è qui che vive la maggioranza dei Nuer. Bentiu resta saldamente nelle mani dei ribelli che sono fuoriusciti dall’esercito regolare e si sono schierati dalla parte di Riek Machar, scacciando il governatore dello Stato e installando il loro quartier generale proprio qui, in modo da controllare l’intero Stato dello Unity. Sembra una strategia orchestrata per ottenere, negli eventuali “dialoghi di pace”, più forza contrattuale a Riek Machar.
Intanto sono circa ventimila gli sfollati da Bor che hanno già attraversato il Nilo e stanno cercando rifugio nella regione dei grandi laghi. Nella capitale intanto si sono riversati oltre 25 mila Nuer che stazionano nei due campi organizzati da Unmiss in situazioni davvero precarie. Nel caos generale sono state trovate, proprio in città, due fosse comuni contenenti centinaia di corpi non solo di soldati ma anche di bambini e donne. Gli sfollati interni al Paese sono già 120 mila e quasi 50 mila quelli nei campi Unmiss sparsi nelle zone dove sono in atto scontri tra i ribelli e l’esercito regolare. Si contano ormai oltre un migliaio di morti in appena tre settimane. La capitale Juba sembra calma nell’ultima settimana, ma il Consiglio di sicurezza dell’Onu ha raddoppiato il contingente dei soldati presenti passando da seimila a dodicimila soldati del Kenya e dell’Uganda che sono arrivati con l’accordo con il presidente Salva Kiir.
Forti pressioni sono state esercitate sui due contendenti dall’Onu, dall’Unione Africana, dagli Usa, della Comunità europea e dell’East Africa per aprire un negoziato e impedire una guerra aperta che coinvolgerebbe tutte le etnie. Vi è una grossa e profonda divisione tribale tra i due contendenti da lungo tempo e delle rispettive etnie. È recente la notizia che il presidente abbia già liberato due tra gli otto ex ministri e governatori incarcerati perché ritenuti responsabili assieme a Machar del tentato colpo di Stato. Questo risultato è stato ottenuto grazie alla mediazione internazionale che spera nella collaborazione di queste persone per aprire una pista di dialogo con il governo e con i ribelli in modo da trovare soluzioni di bene per tutta la popolazione. Anche le Chiese sono intervenute per evitare che il conflitto degenerasse promuovendo varie iniziative e scrivendo una lettera aperta in cui confermavano la disponibilità a mediare e non solo a pregare. La popolazione ha subìto passivamente questa situazione di scontro da cui non si trova via d’uscita. Urge saggezza per mettere il bene comune della gente del Sud Sudan davanti allo scontro frontale per il potere in un Paese nato appena due anni fa.