In piazza a Torino tra terrore e solidarietà

Dalla viva voce di chi c'era, una riflessione su quanto accaduto sabato sera a Torino. Perché forse è stato proprio lì, dove il terrorismo non c'entrava nulla, che il terrorismo stesso ha dato prova del suo impatto sulle nostre vite
Piazza San Carlo dopo la serata di sabato ANSA/ALESSANDRO DI MARCO

Ore 22.10, piazza San Carlo, Torino. Nel salotto regale della città ci sono almeno 30.000 persone davanti al maxi-schermo che trasmette la finale di Champions League tra Juventus e Real Madrid.

Anche io all’inizio del secondo tempo raggiungo la piazza, per tifare la mia Juve e vivere da dentro l’aria frizzante della città. Quando arrivo, vuoi per lo schermo poco visibile, per un’inquietudine di fondo e soprattutto per un’innata paura della folla, decido di non buttarmi nella mischia. Mi concedo giusto qualche metro sotto i portici per fare una foto della folla. Poi mi fermo dove l’incrocio tra via Santa Teresa e via Roma delineano la fine della piazza. Arriva il terzo goal e decido che posso tornare a casa. Percorro qualche metro in una via adiacente. Pochi secondi dopo vedo molte persone provenienti dalla piazza correre nella mia direzione.«Stanno sparando in piazza, scappate», urlano. Rischio di essere travolta dalla loro foga. La mente vola subito a Parigi e alla triste scia di sangue che ne è seguita, e tutti ci mettiamo a correre, senza farci troppe domande. Ci si barrica nei locali, si suonano i campanelli delle case della zona per chiedere riparo: il terrore si è impossessato di noi.

Lì a pochi metri, nella piazza, si sta scatenando il panico, come in una pentola a pressione con le valvole chiuse. «Urlavano “c’è una bomba, evacuate la piazza” e noi fuggivamo, c’erano persone a terra, sangue, vetri ovunque»”, «Ero proprio accanto alle transenne – dice Marco – mi sono sentito sollevare verso l’alto. È stato terribile». Nel tentativo di scappare tanti cadono, perdono le scarpe e vengono travolti e calpestati. La spinta della folla impazzita è così forte che abbatte la ringhiera in ferro dell’ingresso del parcheggio sotterraneo e qualcuno cade dentro.

Di ciò che accade a Cardiff non importa più a nessuno, la piazza si svuota in pochi minuti e sembra sia passato un tornado: a terra ci sono scarpe, libri, vestiti, zaini, persone sdraiate che vengono consolate e medicate. Tanti cercano di mettersi in contatto con i propri familiari. Per strada fermo la mia corsa quando vedo una ragazza insanguinata che piange e sembra essersi persa: non riesce a mettersi in contatto con le amiche che erano con lei. Posso solo cercare di consolarla.

Il bilancio di quei minuti di panico collettivo è impietoso: più di 1500 feriti, di cui 8 in codice rosso, un bambino e altre due persone in ospedale in gravi condizioni. Molti sono rimasti feriti perché sono caduti o hanno camminato scalzi sui vetri delle bottiglie degli alcolici che, nonostante il divieto, sono entrati invece in grande quantità in piazza, trasformandosi in armi.

Il day-after è soprattutto la grande rabbia per la superficialità con cui è stato gestito l’evento, riversata a fiumi sulle pagine social istituzionali e della sindaca Appendino, prese letteralmente d’assalto da migliaia di commenti molto negativi.

Sotto accusa le falle dell’organizzazione del Comune, Prefettura e Questura che è sembrata approssimativa. A cominciare dalla scelta della piazza, piccola, chiusa e senza vie di fuga; la mancanza di una divisione in settori, le transenne molto leggere che hanno creato un’ulteriore “gabbia”; la mancanza di ulteriori maxi-schermi in città (solo un altro montato in una periferia, contro i quattro del 2015), nonostante fosse ampiamente preventivabile un grande afflusso, anche di chi da tutta Italia non aveva trovato il biglietto per Cardiff; i controlli quasi inesistenti, la polizia poco presente (a pochi metri da alcuni poliziotti una decina di ragazzi guarda la partita in piedi sul tetto dell’edicola) e impreparata. Come possano essere entrate in piazza tutte quelle bottiglie di vetro? Chi è passato dalla piazza nel pomeriggio racconta di molte persone già ubriache molte ore prima dell’inizio della partita.

Cosa abbia scatenato il panico non è ancora chiaro: si è parlato di una bomba carta o petardo esploso, di un ragazzo con uno zainetto che qualcuno può avere scambiato per un terrorista. Qualsiasi sia stata la causa, la città attende ed esige delle risposte che vadano oltre lo stucchevole scaricabarile istituzionale di queste ore. Certo la gestione di eventi del genere non è semplice: ma l’impressione è che questo appuntamento sia stato sottovalutato, se è vero che i protocolli utilizzati sono stati quelli del 2015, quando però non erano ancora successi i fatti del Bataclan e quello che è seguito. L’impressione, senza voler scadere nell’esagerazione, è che se si fosse trattato di un vero attentato le conseguenze sarebbero state tragiche.

In questa brutta pagina per Torino anche tante belle storie: chi ha cercato di rialzare le persone incrociate sul suo cammino, chi ha aperto il portone della propria casa, chi ha preso in braccio uno sconosciuto per portarlo all’ambulanza più vicina, chi si è chinato per proteggere un bambino. Stefano racconta su Facebook: «Decine di persone hanno chiesto aiuto e sono entrate in casa. Gente ferita, i bambini, la paura, il sangue. Tanto sangue. E noi a dare acqua e caffè, a coccolare, a dire “è passato”». Giulia su Twitter lancia un appello:«Vicino al Caffè San Carlo un ragazzo mi ha sollevata da terra. Non sono riuscita a ringraziarti, se leggi batti un colpo». La sorella del bambino ferito:«Siamo caduti a terra, ci calpestavano tutti. Lui gridava. Un uomo di colore ci ha aiutato». Sempre su Twitter Davide scrive: «Mi piacerebbe sapere come sta la ragazza che ho aiutato sabato sera, la stavano schiacciando di fronte a una colonna». Non sono mancati dei tentativi di sciacallaggio ma sono stati casi isolati: di fronte ad una paura e terrori comuni, la gente ha riscoperto la solidarietà.

Sembra di raccontare di una guerra. Quasi contemporaneamente a Londra si consumava l’ennesimo attentato, questa volta reale. La concomitanza sembra rimarcare beffardamente come il terrorismo colpisca London Bridge, Parigi, Istanbul … ma abbia vissuto il suo vero trionfo in Piazza San Carlo, dove è bastata forse una goliardia per scatenare il panico e toccare il nostro nervo scoperto di oggi: l’aumento della percezione dell’insicurezza, che ci si appiccica dentro senza che possiamo farci niente per impedirlo.

Uno stato di paura continuo che, è bene ricordarlo, in molte parti del mondo si vive ogni giorno, da molti anni. La paura e il terrore hanno un odore acre, e visti da vicino fanno molta impressione. Ciò che io ho imparato sabato sera è che dobbiamo imparare a conviverci e a sapere che sono lì, come una molla pronta a saltare al più piccolo sussulto. Quanto è successo sabato speriamo serva di lezione anche a chi si occupa della nostra sicurezza. Perché se lo guardiamo come un test, purtroppo, non è stato superato.

 

Leggi anche l’articolo di Michele Zanzucchi “Londra e Torino, sangue e terrore

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