In partenza

Quinto episodio della vita di padre Damiano de Veuster, missionario, portatore di speranza tra i lebbrosi, canonizzato l'11 ottobre.

Poco tempo dopo – siamo nel 1863 – successero due fatti, che, nella loro concatenazione, decisero il destino del nostro protagonista.

A un’urgente richiesta di missionari, giunta da monsignor Maigret, vicario apostolico delle Hawai, la Congregazione dei Sacri Cuori rispose prontamente destinando a quelle isole un gruppo di religiosi, fra cui il padre Panfilo.

Contemporaneamente scoppiava a Lovanio una grave epidemia di tifo.

Prenotato un posto sul veliero R. W. Wood, in partenza da Brema a fine ottobre o ai primi di novembre (tutto dipendeva dal vento), padre Panfilo ritenne che, nell’attesa d’imbarcarsi, non avrebbe potuto prepararsi meglio al lavoro missionario, che dedicandosi con tutta l’anima ad assistere quegli ammalati.

Anche fratel Damiano, che già aveva patito una profonda delusione nel non vedere il proprio nome nella lista dei partenti per le Hawai (al punto che gli era parso che tutto si fosse fatto notte intorno a lui), chiedeva almeno che non gli si negasse la grazia di soccorrere tutti quei colpiti dall’epidemia.

Niente da fare. Lì, inchiodato al suo tavolo di studio doveva stare! La teologia non ammetteva evasioni.

Provvide Panfilo, peraltro, a far pure la parte del fratello; e fu di una tale abnegazione nell’accorrere di notte e di giorno, per varie settimane, al capezzale degli infermi, che i superiori ritennero di poter formulare su di lui le previsioni più lusinghiere.

«Sarà un magnifico missionario», si dissero con aperto compiacimento.

Poi, finalmente, l’epidemia perse di virulenza, andò via via smorzandosi, e alfine un bollettino medico ne annunciò le cessazione definitiva.

Ma ecco che, subito dopo, come per uno scoppio ritardato, ci fu un altro caso di tifo – l’ultimo nelle cronache sanitarie di   Lovanio, in quell’anno   1863 – e il colpito fu proprio il padre Panfilo.

Si era ormai ai primi di ottobre. Mancava meno d’un mese alla data in cui il trealberi R. W. Wood avrebbe salpato le ancore alla volta del Pacifico. Inutile illudersi. Padre Panfilo non sarebbe potuto partire…

Alla sua pena, che fu d’una amarezza sconsolata, partecipò la pena ancor più acuta di Damiano: dunque neppur uno dei due fratelli De Veu-ster avrebbe potuto servire quell’ideale missionario, che da tempo li bruciava entrambi?

Ma un giorno, che Damiano sedeva accanto al letto di Panfilo, parve improvvisamente folgorato da un’idea.

«Che ne diresti – disse, con gli occhi accesi d’una febbre subitanea –, che ne diresti se partissi io al posto tuo? Dimmi, ti dispiacerebbe?».

Padre Panfilo parve esitare per qualche istante. «No, non mi dispiacerebbe – rispose poi –, ma non ti daranno il consenso… Hai ricevuto appena gli ordini minori… devi ancora studiare parecchio… non te lo daranno».

«Chi non me lo darà?». «II superiore, chiaro, padre Venceslao!». «E chi pensa di chiederlo a lui?». Damiano era già in piedi; raggiunse lo scrittoio, tolse un foglio di carta da un cassetto, scrisse rapidamente la sua supplica, la infilò in una busta, e sulla busta vergò, con qualche svolazzo calligrafico,   l’indirizzo   del   superiore   generale   a   Parigi. «Lui mi vuole un bene dell’anima», spiegò al fratello, riferendosi al soggiorno parigino, quando aveva conosciuto di persona il generale.

La risposta giunse più presto che non se l’aspettasse. La trovò un mezzogiorno, rientrando dall’università, accanto al suo piatto, in refettorio, ed ebbe un tuffo al cuore. In quella lettera era racchiuso il suo destino.

L’aprì a fatica, per le mani che gli tremavano.

Il verdetto era sì.

 

Balzò dalla sedia, attraversò la sala di slancio, sgusciò fra i camerieri che sopraggiungevano con le marmitte fumanti, salì le scale a quattro gradini per volta e irruppe nella stanza del fratello.

«Parto al tuo posto!», gli annunciò col pianto e il riso nella gola, e si strinsero in un abbraccio senza parole.

«Pazzo sei, pazzo da legare, a voler partire prima della tua ordinazione!», fu quanto gli disse, poco dopo, il superiore.

Era un po’ risentito, il buon padre Venceslao, della manovra avvolgente con cui fratel Damiano s’era sottratto alla sua opera di dissuasione. Ma ormai era cosa fatta.

«Va’ a salutare i tuoi!», gli borbottò.

Poche ore a “La Ninde”, il tempo appena di dirsi alcune cose, quelle essenziali, e di salutarsi.

«Addio, papa!.. Addio, Leonzio!.. Addio Gerardo!»…

Ma alla mamma – la sua mamma, povera vecchietta scossa dai singhiozzi, che con un tremito di angoscia faceva di no con la testa, di no, di no, che non se ne andasse – gli fu impossibile dire addio.

«Ci vediamo domani… ancora una volta… a Montaigù, vuoi?».

E lei gridò: «Sì, sì, Jef», in un lamento lungo, straziante.

Il giorno dopo, quando entrò nel santuario di Nostra Signora di Montaigù, in pellegrinaggio di ringraziamento per la guarigione del fratello, lei era già lì, curva, quasi rannicchiata su sé stessa da parere minuta, in lacrime ai piedi della Madonna. Le si inginocchiò accanto, ed ella gli afferrò la mano destra, e gliela tenne stretta, fra le sue lunghe dita intrecciate.

Con gli occhi fissi nel dolce viso dell’immagine benedetta, madre e figlio implorarono insieme il conforto e l’aiuto del cielo.

«Vergine santa – pregò lei –, da’ alla mia anima la grazia di superare quest’agonia e concedi al mio cuore la forza di sopportare la separazione da Jef».

«Dona a questa poveretta – supplicò lui – la rassegnazione alla volontà di Dio, e fa ch’io possa lavorare a lungo… almeno dodici anni… laggiù, nelle terre di missione».

Uscì dal santuario tenendo la mamma sottobraccio. Gli parve rinfrancata di molto, perfino eroica in quei suoi sforzi di comportarsi con una certa disinvoltura.

Ma quando giunse la diligenza, ed egli fece per salirvi sopra, l’angoscia ebbe di nuovo il sopravvento. E in entrambi. Perché entrambi seppero, in quel momento, che non si sarebbero rivisti mai più, almeno su questa terra.

L’ultima stretta di mano attraverso il finestrino, e a una sola voce si scambiarono lo stesso addio: «Ci rivedremo in cielo».

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