In memoria di Claudio Abbado e Antonio Paolucci

Antonio Pappano ha diretto a Santa Cecilia il Requiem verdiano, ricordando il grande artista scomparso dieci anni fa. Verità e commozione. Il 4 febbraio è scomparso Angelo Paolucci, storico dell'arte, già direttore dei Musei vaticani e ministro dei beni culturali
Claudio Abbado in una foto di archivio ANSA-EPA/GIUSEPPE MOCCIA

Una lotta epica tra speranza e timore, fra terrore e possibilità di un “dopo”. Un dopo che è un soffio. Così chiude sull’impasto lieve e grondante lacrime  il Libera  me Domine della Messa da Requiem verdiana, il primo brano ad essere composto dal musicista. Lotta tra oscillante speranza e oscillante tremore, nell’umanità di fronte alla morte ed anche in lui, Giuseppe Verdi. Che non ha mai risolto il problema, forse avvicinandosi un poco nelle ultime frasi dello Stabat Mater.

Ma qui con sublime equilibrio fra l’iniziale sommesso Requiem, il tumultuoso Dies irae – un lunghissimo poema di poemi – , il lacrimoso Agnus Dei sino alla conclusione di una massa di sentimenti cozzanti fra loro,  Verdi compone una monumentale cattedrale del pensiero, dell’emozione, della fede-non-fede e dell’incontro con quella morte che egli, come ogni uomo, ha tentato di esorcizzare per tutta la vita. Anzi, si potrebbe quasi dire che è la morte, insieme all’amore,  la grande protagonista del teatro drammatico umano, molto umano, del compositore, fin dal 1842, il primo trionfo con il Nabucco.

Bisogna confessare che anche  sir Antonio Pappano, tornato a dirigere quella che per anni è stata la sua orchestra, era molto preso dal testo musicale tanto che alla fine era lui stesso emotivamente coinvolto, e visibilmente. Questa è una musica che rode dentro, prende tra momenti soavissimi ed altri tesi, non lascia indifferenti e rende il pubblico silenzioso, attonito, anche i numerosi giovani.

Quanta bellezza nell’orchestra: i limpidi violini primi, i violoncelli cantanti, le viole finalmente messe in luce così calde, gli ottoni pastosi. Il luccichio dell’oboe e le scintille del flauto, la pastosità degli ottoni, le meravigliose percussioni, tutto luminoso. Come il coro perfetto, e il quartetto di solisti:  il tenore SeokJong Belk, davvero squisito nell’”Hostias”  – finalmente eseguito con il trillo lento e dolce, cosa rara -, il basso melodioso Giorgi Manoshvili, il soprano di colore, svettante Masabane Cecilia Rangwanasha e il mezzosoprano lettone Elina Garanca, voce luminosa.

La direzione di Pappano, appassionata, fervida, ha svelato bellezze nascoste  in questa formidabile partitura,  soprattutto ha commosso il pubblico emozionato e felice anche per il ritorno del ”suo” direttore”. Emozione palpabile, vera.

Antonio Paolucci archivio ANSA/CLAUDIO ONORATI

La scomparsa  di Antonio Paolucci

L’ultima volta che ci siamo visti  è stato poco tempo prima del Covid. Alla stazione di Pisa: io scendevo a prendere il treno per Roma, lui arrivava da Firenze. Saliva le scale a fatica, era sciupato, ma gli occhi indomabili.

Ci siamo fermati a parlare: era sempre lui con il quale ci si era incontrati più volte quando dirigeva i Musei Vaticani.  Raccontava di come la sera, quando  i turisti se ne erano andati, lui da solo girava per la Sistina e le Stanze, dove ammirava l’amato Raffaello, per lui il più grande. Paolucci era un vero umanista, laico e credente, innamorato della bellezza.

L’ha difesa, raccontata, scritta con un talento comunicativo ammirevole. Ministro, scrittore, saggista, organizzatore di mostre, amico di papa Ratzinger, ma forse non troppo in sintonia con papa Francesco, che solo una volta è stato nei Musei Vaticani, dai gusti artistici del tutto particolari, come manifesta il gruppo bronzeo in piazza San Pietro. E forse per questo motivo Paolucci ha lasciato il Vaticano?. Ci mancherà una figura come quella del professore, uomo cordiale, riminese aperto, fiorentino di adozione.

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