In fuga dalla povertà. Non dimenticarlo
Provate a immaginare la scena. E ancor prima il contesto. Quello italiano, innanzi tutto, dove infuriava la polemica all’interno del governo per gli sbarchi di immigrati extracomunitari sulle coste siciliane, con Bossi che propone cannonate e Pisanu sfiduciato dalla Lega e difeso dal centrodestra e dal centrosinistra, compreso il presidente Ciampi. E quello internazionale, con il vertice europeo dei capi di stato e di governo a Salonicco, che, in fatto di lotta all’immigrazione clandestina, ha deciso di far pattugliare le coste italiane non solo dalla nostra Marina militare e dalla Guardia di finanza ma anche da navi di altri paesi europei. In poche parole: difendiamoci e niente più. Ed eccoci alla scena cruciale. Interno di Villa Madama, Roma. Il ministro degli Esteri Franco Frattini ha convocato gli ambasciatori dei paesi dell’Africa sub-sahariana. Temi: traffico esseri umani e immigrazione. Ad un certo punto, interviene la signora Fatouma Mireille Ausseil, rappresentante della Nigeria. Con semplicità riferisce ciò che conosce bene: “Se le persone non possono nemmeno mangiare, è impensabile che non siano disposte a fare qualsiasi cosa pur di migliorare la propria vita. Il nostro principale obiettivo è quindi la lotta alla povertà”. Frase sconveniente, questa, nei circoli della diplomazia internazionale. Pronunciarla significa pregiudicare equilibri formali raggiunti con accordi che tacitano le coscienze. Lo scorso anno, al vertice Fao sulla fame nel mondo sono stati presi impegni per dimezzare entro il 2015 il numero dei “grandi poveri” del pianeta: 840 milioni di persone. Ancora non è stato mosso un passo. La povertà – concordano gli esperti – è la madre di tante guerre e di tutte le migrazioni. Il direttore generale della Fao, Jacques Diouf, indica con chiarezza gli ostacoli che impediscono un’azione mirata e collegiale degli stati: l’incapacità di riconoscere il costo mondiale della fame e la mancanza di volontà politica nell’affrontarla direttamente. Non è casuale che sul banco degli imputati si trovino i paesi sviluppati anche a motivo dei sostegni concessi ai propri agricoltori. Stati Uniti e Giappone, ad esempio, spendono al riguardo ogni anno, secondo la Banca Mondiale, 350 miliardi di dollari, sette volte la cifra globale degli aiuti ai paesi poveri. Non bastano, da soli, i provvedimenti di rimpatrio e le motovedette della Marina. Sarà importante raggiungere un accordo con il leader libico Gheddafi, dalle cui coste salpano tante imbarcazioni zeppe di fuggiaschi. L’embargo per vicende di terrorismo blocca la fornitura di imbarcazioni veloci, radar e visori termici per individuare nella notte le carovane di clandestini. Ma se si arriverà a qualche dotazione, nessuno si illuda che possa fermare un fiume in piena. E qualche cifra dà le proporzioni di cosa potremmo aspettarci. Durante i mesi estivi, secondo informazioni dei servizi segreti italiani confermate dal ministero dell’Interno, potrebbero ammassarsi sulle coste dei paesi nordafricani 1,5-2 milioni di persone disposte a tutto pur di imbarcarsi per raggiungere le coste italiane. “Tutti i paesi dell’Africa centromeridionale – ha ricordato l’ambasciatore etiope nel nostro paese Menghistu Hullaka – sono ad alto flusso migratorio”. Come bloccare allora un fenomeno destinato ad aggravarsi? La risposta può venire solo da un concorso internazionale di volontà e risorse. Non costituiscono certo novità le proposte di riconsiderare il debito dei paesi più poveri, di maggiore equità del commercio internazionale, di assoluta priorità in fatto di educazione e salute. D’altro canto, anche i paesi poveri sono interpellati per divenire protagonisti del loro sviluppo, incominciando a spegnere i conflitti etnici, combattere la corruzione, impedire la fuga all’estero delle persone qualificate. Nobili obiettivi, ma difficili da raggiungere se non progrediranno la logica e il metodo della cooperazione allo sviluppo nelle strategie di politica internazionale. Eppure proprio adesso gli stati più progrediti stanno riducendo la portata dell’esperienza di cooperazione. Il nostro paese non ne è escluso. Lo fanno presente le 164 organizzazioni non governative italiane riunite in associazione e attive nei paesi poveri. Le risorse alla cooperazione, fanno presente, sono diminuite nonostante gli accordi internazionali di Monterrey, la delega alla cooperazione non è assegnata da alcun sottosegretario, mentre regna la confusione tra cooperazione internazionale e promozione del commercio estero. E non è tutto. I contributi per le organizzazioni non governative sono stati ridotti di due terzi (da 99,6 milioni di euro del 2002 agli attuali 38,6), con l’aggravante che ad oggi non è stato ancora erogato un euro per programmi approvati; da cinque mesi, inoltre, non si riunisce il comitato direzionale della cooperazione, cosicché 250 progetti attendono ancora l’approvazione. Ma quello che ha fatto perdere le staffe ai cooperatori è stata la proposta del ministro dell’Economia Tremonti di destinare i 308 milioni dei già magri fondi per la cooperazione al finanziamento della missione militare in Iraq. Un’idea, viene stigmatizzato, in palese violazione della legge vigente che vieta l’utilizzo di tali risorse per finalità militari. Come ripensare la cooperazione? Ha un futuro? Ne parliamo a parte con un esperto. Indicativi, comunque, due esempi. L’Albania, incubo per anni a motivo dei continui arrivi via mare, non desta più preoccupazione. Cosa è successo? Semplicemente, è stato sperimentato il metodo della cooperazione. L’Italia ha investito nel Paese delle aquile, creando opportunità di lavoro agli albanesi nella loro terra, collaborando alla costituzione della polizia, offrendo consulenze per scrivere leggi efficaci. E gli sbarchi sono cessati. Ecco perciò la necessità di raggiungere accordi con i paesi nordafricani e mediorientali. La seconda indicazione arriva dalla Caritas italiana, impegnata ad aiutare anche le popolazioni povere in tutti e cinque i continenti. La capacità di stare vicino alla gente e di cercare le soluzioni più adatte alla luce della cultura locale hanno consentito l’avvio di ben 536 progetti con finanziamenti superiori ai 14 milioni di euro, provenienti per il 7 per cento da enti pubblici e, si badi bene, per l’86 per cento da offerte di privati. La cooperazione vera è tale se arriva a questo grado di coinvolgimento popolare. BARBERA:RIMOTIVARE LA COOPERAZIONE Guido Barbera, 45 anni, è vicepresidente dell’associazione che raggruppa 164 organizzazioni non governative italiane ed è stato il rappresentante italiano in seno al comitato europeo delle ong. I paesi industrializzati stanno riducendo le risorse destinate alla cooperazione, proprio quando la globalizzazione inviterebbe a svilupparla maggiormente. Quali i motivi? “Sicuramente una diminuzione di interesse sia politico che di risorse verso i paesi in via di sviluppo. Ma soprattutto c’è un aumento del condizionamento dei finanziamenti legato sia alle politiche estere sia alle politiche finanziarie e commerciali”. Quale tipo di condizionamento? “La cooperazione è diventata sempre più uno strumento per favorire la presenza dei paesi donatori nei paesi destinatari degli aiuti. C’è una convinzione: promuovere il commercio favorirà risorse anche per soddisfare le necessità primarie delle persone. La persona umana perciò è secondaria rispetto agli interessi dell’economia e delle politiche di sicurezza dei paesi. I finanziamenti non vengono più concessi a favore delle zone povere ma a vantaggio dei paesi con cui ci sono interessi politici, come l’area mediterranea e i paesi dell’Est Europa. Si dimenticano così gran parte dei paesi africani, dove ci sono conflitti che mettono a repentaglio il futuro di almeno 40 popoli”. Allora, è snaturato lo spirito della cooperazione? “Negli anni Settanta, le organizzazioni non governative erano un soggetto considerato e importante, quindi venivano finanziate perché erano presenti tra la gente e rispondevano ai loro bisogni. Oggi, le ong sono uno dei tanti soggetti che fanno cooperazione e quindi vengono utilizzate semplicemente per realizzare progetti che rispondono agli interessi dei donatori non delle persone povere”. Quale cooperazione è necessaria oggi? “Una cooperazione in cui la società civile sia sempre più presente, perché non ci può essere sviluppo senza la partecipazione della società civile.Abbiamo bisogno di strumenti che rispondano alle necessità delle persone, indistintamente che si trovino al Nord o al Sud. Si tratta di ridefinire tutta la politica sociale nazionale ed internazionale”. La crisi attuale della cooperazione penalizza o rimotiva le ong? “In questi giorni qualcuno diceva che questa crisi segna la morte delle ong. Non è così. Purtroppo questa crisi è la morte dei valori che permettono l’attività delle ong. Le ong nascono dalla società, devono avere un forte radicamento sia al Nord che al Sud e devono creare legami tra le persone. Non possono essere un’agenzia, né un’impresa”. Critiche al governo Berlusconi. Ma anche il centrosinistra non aveva brillato nel sostegno alla cooperazione. “Non è una questione di governo di destra o di sinistra. La crisi della cooperazione in Italia è cominciata all’inizio degli anni Novanta. Quello che ci dispiace dell’attuale governo è la contraddizione tra le affermazioni e i fatti. Quando incontrammo il governo Prodi, ci fu detto: non possiamo intervenire oggi per cambiare la cooperazione perché abbiamo cose più urgenti. Questo governo, dal presidente ai vari ministri, ha sempre promesso di fare grandi cose a favore dei paesi poveri, ma di fatto sta facendo tutto il contrario”. Davanti a questo quadro, cosa possono fare i cittadini italiani? “Possono fare molto, nel senso che l’opinione pubblica può indirizzare la politica di un paese. Quindi sottolineare la necessità di intervenire nei problemi sociali a casa nostra, ma anche a livello internazionale, perché ormai sono legati tra loro. La cooperazione non è un lusso, non porta via soldi agli italiani ma aiuta a fare civiltà in primo luogo e ad affrontare problemi come l’immigrazione e stabilire rapporti costruttivi con altri popoli. Non dimentichiamoci che le grandi svolte della cooperazione italiana negli anni Ottanta sono legate ad una presenza forte dell’opinione pubblica che denunciava la fame nel Sahel prima e reclamava poi un impegno più forte verso i paesi in via di sviluppo”.