In Egitto 529 condanne a morte

Suscita forte perplessità la scure calata sui Fratelli musulmani. Le condanne sono ancora provvisorie. La società civile preoccupata per i ripetuti soprusi
Manifestazione degli studenti dell'università del Cairo

In questi giorni ha fatto il giro del mondo la notizia della condanna a morte di 529 appartenenti alla Fratellanza musulmana, decretata dal Tribunale di Minya in Egitto ed ora in attesa di ratifica o meno da parte del Gran Mufti di Egitto. Ha suscitato reazioni in diversi Paesi anche il fatto che la sentenza sia stata emessa solo dopo due udienze.

I capi di accusa erano diversi e comprendevano anche l’omicidio. I condannati sono, fra l’altro, ritenuti responsabili dell'uccisione di due poliziotti, oltre che di violenze contro persone e beni, nel corso delle proteste dello scorso agosto. Inoltre, erano anche accusati di incitamento alla violenza e omicidio per la morte di otto manifestanti anti-Fratellanza, negli scontri avvenuti davanti alla sede del movimento, al Cairo, l'anno scorso.

Si tratta di una sentenza «sproporzionata e ingiusta», hanno dichiarato gli avvocati difensori, fra i quali c’è anche Mohammed Zarie, che dirige un centro per la tutela dei diritti umani al Cairo. Significativa è stata anche la posizione della Chiesa egiziana che ha voluto prendere le distanze dalla sentenza, ribadendo il suo rifiuto alla pena di morte.

«La situazione è complessa. C'è la durezza di un giudizio, che non è definitivo, e occorre aspettare», ha affermato il vescovo copto-cattolico di Assiut, Kyrillos William, all'agenzia Fides. In ogni caso, ha aggiunto, «la Chiesa è contro la pena di morte. Dal punto di vista della coscienza cristiana, la condanna capitale non può mai rappresentare la strada per risolvere i problemi in modo giusto».

«Molti – spiega Anba Kyrillos all'agenzia Fides – dubitano che il Gran Mufti confermerà le condanne. Già in altre occasioni i giudici che hanno emesso la sentenza si erano distinti per aver comminato pene durissime». In molti, inoltre, chiedono che siano prese «pene esemplari contro le violenze settarie». Tuttavia, ribadisce il presule, «la pena di morte non può rappresentare la soluzione».

La posizione della Chiesa in Egitto è significativa se si pensa, come ci dicono alcune fonti dirette all’interno della comunità cristiana del Cairo, che «molti qui non capiscono come non si condannino gli atti di violenza che subiscono i cristiani da decenni in qua, e anche ora». Infatti, ci hanno detto, «c’è una porzione della popolazione (sia musulmani che cristiani) stanca della violenza usata da certi gruppi legati ai Fratelli musulmani ed era necessario prendere una posizione forte e chiara del governo per mostrare il suo braccio di ferro e suscitare timore».

In effetti, come sottolinea anche la testata locale Hebdo el Ahram, «il verdetto arriva in un momento carico di tensioni in cui i ripetuti scontri fra i Fratelli e le forze dell’ordine sono all’ordine del giorno e le università restano paralizzate a causa delle manifestazioni di gruppi di studenti islamisti». Sameh Eid, esperto di movimenti islamisti, ritiene che con una sentenza del genere si mira a lanciare un messaggio chiaro e forte alla Fratellanza per sottolineare che non saranno tollerate più violenze ingiustificate. È necessario, infatti, ritiene l’osservatore, interrompere la catena di violenza e l’impasse politico che ha caratterizzato il Paese dalla destituzione del presidente Morsi.

La sentenza, comunque, non è definitiva e, sebbene lanci un messaggio chiaro a chi vuole paralizzare la vita del Paese con la violenza, spesso fine a sé stessa, il diritto egiziano prevede la possibilità di un nuovo processo per coloro che sono stati condannati in contumacia che si costituiscono e, in generale, un ricorso in Cassazione per coloro già in carcere e condannati in questi giorni. Come detto, sarà, poi, fondamentale la ratifica del Gran Mufti che rappresenta l’Islam presso lo Stato.

A livello internazionale, le reazioni non sono mancate e hanno cercato di allertare gli osservatori sul fatto che un processo di questa portata, per il numero degli imputati e per la gravità delle accuse, non possa svolgersi nel giro di due udienze prima dell’emissione della sentenza. L’agenzia AsiaNews ha riportato la notizia che Marie Harf, vice portavoce del dipartimento di Stato degli Stati Uniti, ha rilevato che, a fronte di quanto accaduto, Washington è «profondamente preoccupata» e «scioccata». E Catherine Ashton, responsabile della politica estera dell'Unione europea, oltre a sostenere che «la pena capitale non può mai essere giustificata», ha chiesto il rispetto del «diritto degli imputati a un processo equo e nei tempi opportuni».

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