In coma
«Sono le 5.02 di martedì mattina. L’acqua piange lungo le finestre semiaperte e qualche goccia entra nella camera, scivolando sul termosifone in ferro cromato. Strano che mia madre non se ne accorga. Da quanto tempo non dormivo senza di te a fianco? Un anno, forse un anno e mezzo. In realtà non lo sono neanche questa sera, solo. Fino alle due di notte siamo rimasti davanti alla televisione, in soggiorno, poi la scomodità ci ha obbligato ad andare a letto e non ho dovuto chiederle di farmi compagnia, è stato naturale. Mia madre si è addormentata subito, io ho cercato qualche libro perché non riuscivo a riprendere in mano quello della sera precedente. Ne avevo terminato la lettura, ma volevo osservare alcune figure del Doré, riprodotte in appendice. Ho iniziato a leggere una manciata di libri, così inutili rispetto all’ansia di questo momento. È stata una vecchia Bibbia blu a farmi compagnia nel modo più conveniente, fino a qualche minuto fa: gli argomenti e i toni adeguati alla situazione. Il cellulare, sempre alla mia destra, sul comodino. L’ho controllato ogni due minuti, nessuna chiamata dall’ospedale e batteria quasi piena.
Alle prime luci dell’alba ho spostato le lenzuola azzurre di cotone, ho aperto i balconi della finestra ed ho osservato il movimento delle robinie lungo il fossato che scorre accanto al giardino della casa, così come piaceva sempre fare a te. Sono scivolato lungo il parquet fino al tavolo della camera, dove tengo il computer, i libri e gli appunti della tesi. Lavorandoci di notte, dovrei riuscire a consegnarla in tempo al relatore. Non importa più, ora, la qualità del prodotto. L’importante è fare in tempo. Ho organizzato un po’ il lavoro, nei limiti della lucidità della mente. Mi sto convincendo che la paura della camera da letto e del sonno è solo momentanea. «Una normale reazione subconscia allo choc della mattina precedente», direbbe il tuo psicologo. Mi sforzo di credere che in breve tempo passerà, che non dovrò elemosinare la costante presenza di altri come un bambino con gli occhi spalancati al buio. Certo, passerà. Ma ora no, non è il momento. Ora voglio essere accompagnato. Guardo ancora una volta il cellulare. Nessuna chiamata dall’ospedale. Ho cercato il numero del reparto di Terapia Intensiva per registrarmelo in rubrica e così visualizzarlo in caso di emergenza senza impensierirmi a ogni chiamata, ma non ci sono riuscito. La batteria, però, è un po’ diminuita. Forse è meglio ricaricarlo, posizionandolo a fianco del tuo, in attesa che ti risvegli dal coma. Se ti risveglierai. Se sopravviverai a questa notte.
Sono quasi le 6.00. Fra venti minuti sarà già trascorso un giorno intero. Le 6.20, è un numero simbolico? Mi aggrappo a ogni pensiero, qualsiasi fantasia che mi possa allontanare da quelle immagini che si sono accampate nella mia mente, una pellicola che ripropone sempre gli stessi fotogrammi…
…un primo risveglio, sento i tuoi sussulti ma credo sia un incubo, uno dei tuoi tanti, amore. Penso di essere ancora in piena notte e mi riaddormento… ancora i tuoi sussulti, così drammatici e intensi che decido di svegliarti dal tuo inferno onirico. Ti sento respirare a fatica, come se soffocassi.
[…]
Scandisco il tuo nome, ma non mi rispondi, mentre continua quella specie di affanno. Mi alzo di scatto e vedo che il volto è invaso da chiazze viola e gialle, esce schiuma dalla tua bocca, le braccia sono contratte su loro stesse verso il petto, entrambi i pollici incastrati ridicolmente fra l’indice e il medio. Ti scopro e ti prendo per i polsi, ti chini verso di me, poi improvvisamente ricadi sul cuscino, i rantoli sono cessati. Mi accorgo che le braccia rimangono rigide, non riesco a piegarle. Incomincio a gridare il tuo nome, amore, lo grido e lo grido ancora, ma alle chiazze ora è subentrato sulle tue guance un colore violaceo.
[…]
Il dottore e l’infermiera, dopo aver tastato la gola, mi dicono: «Questa è in arresto cardiaco».
Temevo dicessero: «Questa è andata». Poi tutto avviene velocemente. Estraggono il defibrillatore da una sacca di plastica nera e iniziano a praticare le prime cure. «È bulimica», continuo a dire.
«Ha preso troppi calmanti?», insiste a chiedere il dottore. «Non penso, non è tipo, non lo ha mai fatto», rispondo.
«Non è tipo, non è tipo! È sicuro che non li ha presi? Per noi è importante».
[…]
L’ambulanza è partita cinque minuti fa. In macchina, verso l’ospedale, trovo la forza di chiamare tuo padre. Sono le 7.33. All’inizio penso non capisca cosa stia succedendo. È normale: anche io, che lo sto vivendo in prima persona, non capisco ancora bene cosa stia accadendo. Sono il più calmo e chiaro possibile, sintetizzo gli eventi che spero tu leggerai tenendo in mano questi fogli. In pochi secondi afferra tutto e corre anche lui in ospedale.
[…]
Un’operatrice mi accoglie con un grande sorriso materno, davanti a me una scrivania e delle sedie, lungo tutte le pareti, invece, materiale medico diviso in flaconi, flebo, sacchi, misuratori, tamponi, lacci. «È viva?», è la mia prima domanda.
«Sì, è stata recuperata», mi risponde. L’adrenalina tracolla d’improvviso e posso iniziare a piangere.
Sei in coma, un coma grave, ma sei viva. Per il momento basta».
Da “La caduta delle farfalle” di Alessandro Mazzochel. Con un saggio di Pasquale Ionata (Città Nuova, 2016)