In cerca di vita su Kapteyn_b

Una (ipotetica ma non troppo) storia spaziale con meta un pianeta non dissimile dalla Terra
Simulazione del pianeta Kapteyn_b

C’era una volta una stella, Kapteyn, nata due miliardi di anni dopo il Big Bang, l’esplosione primordiale da cui (13,7 miliardi di anni fa) è venuto alla luce l’universo che conosciamo. Quindi era molto, molto vecchia. Come tutte le stelle che si rispettino aveva intorno a sé alcuni pianeti. Apparteneva ad una galassia anch’essa antica e molto piccola, Omega Centauri, che durante i suoi vagabondaggi nelle rarefatte profondità del cosmo, un giorno incontrò una galassia gigante, la Via Lattea. Questo incontro ravvicinato fu devastante per Omega Centauri, che venne assorbita e smembrata: le maree gravitazionali, infatti, “strapparono” via alcune sue stelle sparpagliandole in tutte le direzioni. Kapteyn era una di queste: cominciò a vagare in balia delle forze gravitazionali fino ad arrivare vicino alla stella Sole (e al pianeta Terra). “Vicino” per modo di dire, si trattava pur sempre di 13 anni luce, cioè l’enorme distanza che la luce percorre in 13 anni alla velocità di 300 mila chilometri al secondo.
Nelle varie peregrinazioni Kapteyn aveva sempre portato con sé i suoi pianeti, uno dei quali, Kapteyn_b, le ruotava intorno in 48 giorni, percorrendo la sua orbita nella cosiddetta “zona abitabile”, cioè ad una distanza dalla stella né troppo vicina né troppo lontana, tale da permettere l’esistenza dell’acqua allo stato liquido. E l’acqua liquida è indispensabile per la sopravvivenza della vita come noi la conosciamo.  Essendo poi Kapteyn_b molto vecchio (il doppio della Terra), aumentavano le probabilità che vi si fosse sviluppata una qualche forma di vita.

Terra

Con telescopi sempre più potenti, un giorno i terrestri lo scoprirono. E, come lui, scoprirono altri pianeti simili alla Terra. Per esempio Kepler 186f, a 500 anni luce di distanza, o i pianeti del sistema Alfa Centauri (tre stelle ruotanti una intorno all’altra) a soli quattro anni luce. Tutti forse abitabili per la razza umana. Ammesso di trovare il modo di andarci.
All’inizio la cosa sembrava impossibile, visto che nell’universo non si può superare la velocità della luce: le vecchie sonde Voyager, a 17 chilometri al secondo avrebbero impiegato 70 mila anni per raggiungere la stella più vicina! L’uomo, allora, invece di aumentare la velocità della navicella trovò il modo di alterare lo spazio-tempo così da “accorciare” il percorso.
 
Seti

Ma da dove veniva questa voglia di andare su altri pianeti? A parte la spinta verso l’avventura e la conoscenza, la razza umana aveva sempre fatto i conti con la propria solitudine nel cosmo. Una famosa frase del fisico Enrico Fermi recitava più o meno così: «Se l’universo è pieno di civiltà evolute, perché nessuno si è ancora fatto vivo»?
Nonostante dal 1974 fosse attivo un apposito programma (Seti) per la ricerca di segnali radio inviati da civiltà extraterrestri, infatti, non si era trovato nulla, né erano atterrati i “dischi volanti”, anche se ogni tanto qualcuno affermava di averli visti. Gli studiosi ne avevano dedotto che la razza umana era l’unica specie intelligente nell’universo, oppure che le specie pensanti tendevano inesorabilmente ad estinguersi, prima o poi. Comunque, se nelle “vicinanze” c’erano pianeti abitabili, bisognava scoprire se nel passato avevano ospitato forme di vita, e se nel futuro avrebbero potuto sostituire la Terra, in caso di deterioramento di quest’ultima. L’uomo, come un bambino, cominciava ad esplorare cosa c’era oltre il giardino di casa. La spinta decisiva, però, venne dalla biologia sintetica.

Biologia sintetica

Gli scienziati terrestri avevano a lungo studiato gli organismi, le cellule e il Dna che ne costituiva il programma di sviluppo. L’origine della vita sulla Terra, però, continuava a rimanere un mistero. Ogni cellula conosciuta, infatti, derivava da un’altra cellula precedente, per cui rimaneva valida la domanda: da dove sono arrivate le prime cellule quattro miliardi di anni fa? Una teoria sosteneva che tutto era dovuto ad una casuale e fortunata combinazione di sostanze che, durante miliardi di anni, aveva poi portato alla formazione della cellula vivente. Un’altra teoria affermava invece che le prime cellule erano arrivate dalle stelle (magari a bordo di qualche meteorite). Ma questo sembrava solo un modo per spostare il problema. Comunque nulla di conclusivo era stato dimostrato.
Nel frattempo, però, l’uomo aveva imparato a leggere il Dna e trasferire l’informazione in esso contenuta nel codice digitale di un computer. A questo punto, manipolando questo codice in simulazioni al computer, poteva riposizionare secondo i suoi desideri le informazioni chimiche contenute nella molecola di Dna, per inserirle infine, così modificate, nella cellula originaria che iniziava ad eseguire il nuovo programma.
In pratica, non solo l’uomo aveva imparato ad analizzare il Dna, ora poteva anche manipolarlo, creando un Dna sintetico sconosciuto in natura, grazie alla “digitalizzazione della vita”, alla sua virtualizzazione dentro il computer. L’uomo aveva “dematerializzato” la vita, quindi poteva ricostruirla a distanza, trasmettendo l’informazione contenuta nel Dna.
A questo punto tutto diventava semplice: serviva un batterio-spazzino contro l’inquinamento dei mari? Bastava definirne il modello al computer, sintetizzare il Dna necessario, inserirlo in una cellula e spargerla nella zona interessata. C’era il timore di un’epidemia? Bastava studiare in anticipo, con appositi algoritmi, tutte le possibili varianti del virus pericoloso, memorizzando in una apposita banca dati i codici dei vaccini necessari. Nel momento in cui si fosse acceso da qualche parte nel mondo il focolaio di una certa malattia, bastava inviare un messaggio contenente il Dna del vaccino adatto ai “replicatori di vita”, apposite macchinette (diffuse in tutti i Paesi del mondo) per la produzione biologica, in serie, di cellule sintetiche. Semplice e poco costoso. Queste macchinette erano come stampanti 3D in grado di “stampare” vaccini, cellule o altri tessuti organici a comando.
L’ultimo passo fu spedire queste macchinette in giro per lo spazio. Arrivata su un pianeta (ad esempio Marte o Kaptein_b) la macchinetta per prima cosa iniziava a trivellare il suolo in cerca di acqua. Se la trovava, cercava in essa eventuali tracce di Dna alieno. Se le trovava, le analizzava e ne spediva via radio il codice sulla Terra, dove appositi “replicatori di vita” ricostruivano in laboratorio la vita marziana (o di Kaptein_b) e i suoi organismi.  In pratica la Terra cominciava a diventare un zoo galattico. Ci fu per la verità anche un effetto secondario: sparpagliandosi, piano piano, per tutti i pianeti della Via Lattea, queste macchinette  involontariamente trasportarono ovunque frammenti di Dna terrestre. Finché, molti milioni di anni dopo…

Realtà

La storia descritta fin qui è di fantasia, ma solo in parte: Kapteyn_b esiste. La digitalizzazione del codice genetico e il suo reinserimento come Dna sintetico nelle cellule sono ormai operazioni di routine. I “replicatori di vita” sono ancora solo un’idea, ma si pensa di riuscire a svilupparli in pochi anni. L’unica cosa attualmente fantascientifica è la capacità di “accorciare lo spazio” per arrivare alle stelle, ma alla Nasa qualcuno ci sta pensando. Infine, per quanto ne sappiamo, siamo ancora l’unica specie intelligente nel cosmo.


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Turismo spaziale: si parte
Basta un fisico in forma e cento milioni di euro. Poi si può partire, con la società privata Space Adventure, per la Stazione spaziale internazionale e un’occhiata ravvicinata alla Luna. La Cina, però, propone già viaggi scontati: 70 mila euro per un volo in orbita di pochi minuti. Mentre la Virgin Galactic scalda i motori delle sue navette. Buon viaggio.
 
(Dalla rivista Città Nuova)

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