Impressionisti a Firenze

Fino al 5 gennaio 2014 a Palazzo Pitti dodici capolavori prestati dal museo d’Orsay di Parigi, firmati da artisti come Degas, Renoir, Monet, Pissarro...
Prova di balletto sulla scena di Edgar Degas

Perché andare a vedere solo dodici quadri – dico dodici – a Palazzo Pitti a Firenze? Non è una mostra di quelle minime, così diversa dalle normali, gonfie di lavori, cui siamo da tempo abituati, che fanno accorrere tanta gente pagante? Semplicemente perché questa volta dodici quadri sono quelli giusti: ognuno infatti è un capolavoro o un quasi-capolavoro a sé. Una volta tanto, l’inflazionato termine “capolavoro” che ormai si usa anche per cose veramente orribili – ma ben pubblicizzate – assume la sua valenza originaria.

Degas, Renoir, Cézanne, Pissarro, Monet, prima di tutto. Arrivati dal museo d’Orsay come prestito a Pitti che ha, a sua volta, prestato opere dei Macchiaioli in Francia. Sì, perchè il rapporto Macchaioli-Impressionisti, su cui si è tanto battagliato già nell’800 da parte degli intenditori (non del pubblico) è autentico, senza perdere tempo a stabilire chi abbia iniziato per primo a dipingere in modo così rivoluzionario (per l’epoca). Infatti, a ben vedere, si tratta di una sensibilità che stava attraversando l’Europa e che è stata colta, con forme simili, ma non uguali, sia in Francia che in Italia.

Passeggiare tra dodici tele di questi maestri si rivela dunque un tuffo in una pittura che è respiro, fiato, freschezza, e amore. Vita: era questa l’aria che girava per l’Europa di metà ‘800, vita libera dalle regole accademiche, dalla loro prigione che rendeva l’arte ormai asfittica, perché separata dal vento nuovo che soffiava.

C’è molto vento in queste tele, un soffio ora dolce ora impetuoso, sia in quelle all’aperto che in quelle al chiuso. Prendiamo il “Busto di donna, effetto sole” di Renoir, realizzato intorno al 1875. Tela criticatissima al suo apparire, eppure fulgente di bellezza, con quel corpo di ragazza, ombrato tra le fronde, accarezzato dal vento che esalta il roseo della carne, il sorriso malinconico, tra pennellate fitte e corte. Un respiro di vita giovane in pittura, il soffio dell’anima.

Guardiamo “L’approssimarsi della bufera” di Pissarro, anno il 1877. Le nuvolaglie gonfie e immense sul mare agitato, i campi gialli sconquassati dal vento, la luce violenta dell’ora. La natura, fonte della vita per gli impressionisti, amata come madre forte e tenera, è al lavoro nel suo moto perpetuo, nei suoi fenomeni di presenza creatrice di momenti sempre nuovi. Il pennello ricco di Pissarro si ferma sul pioppo che vibra al cielo, sfonda con la luce il paesaggio: è tumulto del creato che l’artista sente come suo. È passione dell’uomo di fronte alla “passione” della natura.

C’è un senso di timor cosmico che è tipico di tanta arte impressionista. La quale tende a qualcosa di sapore metafisico. Può essere l’incantesimo chiaroscurato di Degas nella “Prova di un balletto sulla scena”, con qualcosa di fatato bianco e di nero sfuggente sulla scena, o il Vaso blu di Cézanne del 1890, dove le cose e i fiori sono colore carnoso, epifania vitale della bellezza del solo esistere. E l’uomo? È lo spettatore assente-presente.

Vale la pena un viaggio fiorentino per incontrare questi ed altri capolavori, incontri con la poesia allo stato puro, momenti di tenerezza interiore che fanno così bene. E poi confrontarli con le opere di Silvestro Lega o Signorini o Fattori, trame del quotidiano che donano una straordinaria pace.

Fino al 5/1 (catalogo Firenze Musei, Sillabe)

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