«Imparare dalla tragedia ad essere responsabili»

La testimonianza di una volontaria della Protezione civile accorsa a Genova per aiutare i soccorritori. L'esperienza dell'accoglienza reciproca, della solidarietà e del lavoro gratuito per chi è in difficoltà.

«Siamo andati per aiutare e sostenere, e siamo stati accolti come parenti». È commossa Daniela R. mentre mi racconta la sua esperienza sotto il ponte Morandi, crollato il 14 agosto scorso a Genova. Era ancora in Valle D’Aosta, in ferie con il marito, quando è stata raggiunta dalla notizia del tragico crollo. E si è subito messa a disposizione per essere inserita nei turni della Protezione civile della sua sezione Bassa Val Bisagno, Gruppo Genova del Comune.

Daniela aveva ancora quattro giorni di ferie sui quali contava per riposarsi, ma le è venuto in mente che, invece, poteva dare la massima disponibilità, proprio perché era in vacanza. È stata inserita quindi in tre turni di otto ore nel corso dei quali ha ascoltato, abbracciato, condiviso, accompagnato, sperimentando più che la bellissima emozione di sentirsi utile, quella di sentirsi piuttosto impotente. «Ho fatto parte fino ad oggi di un gruppo cinofilo che si occupa, con i cani addestrati, di ricerche di persone disperse ed è stata la mia prima esperienza come Protezione Civile. Il compito che mi è stato affidato – spiega – è stato quello di tenere monitorata una strada chiusa che accedeva alle abitazioni evacuate proprio sotto il ponte. Speravo di poter accompagnare almeno le persone a recuperare le proprie cose, ma quello è stato un compito che hanno svolto solo i vigili del fuoco e le forze dell’ordine. Certo, una domanda me la sono fatta: se anche noi volontari avessimo potuto aiutare, avremmo portato fuori più borse», ma evidentemente la paura del crollo imminente dei monconi sospesi ha determinato scelte restrittive, guidate da ragioni di sicurezza.

«Ho avuto pochi metri quadrati su cui vigilare, dunque, comprese alcune viuzze laterali. Ma quanta solidarietà! Sono stata accolta insieme ai miei colleghi a braccia aperte dai residenti, quelli che erano rimasti nelle case non coinvolte dall’evacuazione: ci hanno offerto acqua, caffè, qualcuno è voluto scendere e ci ha aperto le porte della propria casa per l’utilizzo dei servizi. E sì che i genovesi sono schivi e non fanno amicizia subito… Sono rimasta sconvolta: ma non eravamo noi quelli che erano andati lì per aiutare? E invece siamo stati davvero “aiutati ad aiutare”.

Ad un certo punto si affaccia una signora anziana dalla finestra, mi saluta e comincia a raccontarmi la sua vita, la sua paura di dover lasciare la casa, le sue esperienza di aiuto alle persone come volontaria. E comincio a capire perché sono lì: forse solo per fare quello che farebbe un loro parente, e cioè ascoltare, condividere, in poche parole “abitare” anche se per poche ore quello spazio diventato denso di terrore.

Nelle otto ore del turno successivo mi trovo a presidiare la strada di accesso consentita solo ai camion che trasportano i detriti e, anche lì, quanta gente arriva! Curiosi, qualcuno che fotografa, ma soprattutto tante persone che vogliono passare a tutti i costi e a cui dobbiamo spiegare che occorre l’autorizzazione delle forze dell’ordine e a cui indichiamo il percorso, a piedi piuttosto lungo, per raggiungerle.

Quasi subito, però, mi rendo conto che tanta gente ha solo bisogno di condividere la propria paura, direi angoscia e terrore per quello che è successo. Sfoghi, dunque, ma soprattutto l’esigenza profonda di avere qualcuno lì vicino a te che possa accogliere quel mare di emozioni profonde che ti scuotono fin nelle viscere.

Ho ancora negli occhi gli sfollati di Via Fillak transitare con i loro carrelli delle spesa riempiti fino all’orlo dei beni indispensabili fino ai centri di accoglienza. Per me, appassionata di animali, è stato commovente vedere quante persone avevano recuperato i loro gatti, uccellini, pesciolini. Il quartiere è popolare, le persone sono semplici, per questo l’esodo è stato ancora più straziante immaginando il disagio enorme che stavano vivendo.

Avevo voglia di essere più operativa, d’altronde con l’unità cinofila ho sempre fatto lunghe scarpinate massacranti alla ricerca di persone disperse. Avrei voluto dare una mano a togliere detriti… Questa immobilità vicino ad una transenna mi ha fatto capire, invece, quanto sia prezioso saper “stare” vicino alla gente. Non sempre l’operatività si sposa con l’efficacia del soccorso. Mi attendeva però un’esperienza ancora più toccante, per certi aspetti.

Alle 20.30 di giovedì 16 agosto ho raggiunto, a fine turno, il campo base dove vengono distribuiti i pasti ai volontari e alle forze dell’ordine: Croce rossa, vigili del fuoco, guardia di finanza, polizia di Stato, carabinieri: c’era la Genova solidale, ma c’erano anche i rappresentanti di tante regioni italiane convenuti lì. Medici, psicologi, infermieri e anche veterinari. Da qualche tempo anche loro fanno parte delle unità di soccorso perché anche i cani si feriscono nelle ricerche.

C’erano persone di tutte le età, tanti i giovani, ma anche i non più giovani. Ho toccato con mano quanto una calamità possa scatenare un universo di solidarietà e di partecipazione. Prevenire, segnalare, sentirsi responsabili: questa tragedia può davvero insegnarci ad essere cittadini responsabili, senza scuse. E l’esercito dei volontari accorso a Genova può davvero fare la differenza, se lo vogliamo».

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