Immigrazione un problema per l’Europa

Il testo di legge sull’immigrazione recentemente licenziato dalla Camera (1) è prevalentemente teso a dare efficacia alla regolamentazione dei flussi dei lavoratori immigrati, a stabilire criteri rigorosi per l’ingresso dei lavoratori nel nostro paese, combattendo il fenomeno della clandestinità e delle organizzazioni criminali che la favoriscono, e a rendere maggiormente efficaci gli strumenti delle espulsioni e dei rimpatri. Dovrà passare ancora l’esame del Senato, dal quale però non ci si aspettano sorprese; si tende, di conseguenza, a considerarlo, nella sostanza, definitivo. Il testo è articolato in continuo confronto critico con la normativa attualmente vigente: la cosiddetta legge Turco-Napolitano, consolidata nel Testo Unico 286 del 1998. E proprio il ritorno, da parte del nuovo governo, su una materia disciplinata così di recente, e il riferimento serrato e costante al testo del centro-sinistra, ha suscitato numerose polemiche. Di queste, va detto, molte sono state decisamente inutili, sia da una parte che dall’altra, perché sull’immigrazione è l’intera Unione europea che, negli ultimi anni, sta definendo una posizione comune, alla quale qualunque governo oggi in carica si dovrebbe adeguare. Il principio-guida a livello europeo, abbracciato dalla nuova legge fortemente voluta da Bossi, ma ugualmente presente, per la verità, anche nella precedente Turco-Napolitano, è: “l’immigrazione deve anda- re dove c’è il lavoro”. È quanto il premier spagnolo Aznar è andato predicando nel suo giro delle capitali europee, in preparazione del Consiglio europeo di Siviglia, ultimo atto della presidenza di turno spagnola, che si occuperà anche di approntare una politica comune europea sull’immigrazione. A livello di governi, Aznar ha riscontrato sostanziali consensi: i flussi “ordinati e legali” che egli propugna sono una reale necessità. Un paese infatti non può aprire le proprie frontiere con leggerezza, senza tenere conto delle effettive possibilità di dare lavoro; una apertura incontrollata è impensabile: anzitutto, non assicura dignità a chi immigra, consegnandolo a una vita di stenti; e lo espone, fra l’altro, a un rischio di delinquere molto più elevato rispetto a quello del cittadino italiano con un posto fisso (gli extracomunitari costituiscono il 30 per cento dei carcerati in Italia). E questo non perché gli immigrati siano delinquenti di natura, come qualcuno vaneggia – ché, anzi, in molti si trova una dimensione morale, almeno prima che noi riusciamo a fargliela dimenticare, che nell’occidente sviluppato non è più tanto diffusa -, ma perché li si mette in condizioni disperate. Immigrazione clandestina, inoltre, significa traffico di esseri umani e sviluppo delle organizzazioni criminali che lo praticano. Regolare i flussi? Non basta Ma proprio guardando all’applicazione del principio: diamo il permesso di soggiorno dove c’è il lavoro, risulta incoerente il rifiuto – soprattutto da parte della Lega – di accettare il cosiddetto “emendamento Tabacci”, dal nome del deputato dell’Unione democratica cri- stiana, che giustamente chiedeva la regolarizzazione degli immigrati che già lavorano in Italia: una regolarizzazione, come spiega Adriano Pischetola nel suo articolo, che è stata limitata alle “colf” e ai “badanti”. Ma esistono migliaia di immigrati che popolano fabbriche e cantieri, dei quali la nostra economia ha bisogno, e che sono esposti a tutti i rischi dello sfruttamento e degli infortuni – nell’impossibilità di sindacalizzarsi – senza alcuna garanzia. Il governo si è impegnato ad affrontare il problema nel contesto di un più ampio provvedimento sull’emersione del lavoro nero, e ci auguriamo che sia così. Altre critiche al testo licenziato dalla Camera sono venute da alcuni settori imprenditoriali, che hanno lamentato una eccessiva onerosità delle procedure per assumere immigrati, col rischio, di nuovo, di favorire il lavoro clandestino; e gli stessi industriali chiedono che vengano riprese le politiche di cooperazione bilaterale con i paesi di origine e di transito, che i precedenti governi avevano cominciato. Su questi aspetti, gioverà osservare attentamente il funzionamento della legge, per apportare in futuro le modifiche opportune. Ma altri aspetti toccati dal dibattito italiano sono stati molto rilevanti, e su di essi l’intera Europa si sta confrontando: riguardano, precisamente, ciò di cui la legge in via di approvazione non si occupa; e ciò di cui anche l’Europa rischia di non occuparsi. Torniamo ad Aznar e alle sue recenti dichiarazioni: se i paesi di origine non dovessero impegnarsi nella prevenzione dell’immigrazione clandestina – ha spiegato -, si potrebbero rivedere gli accordi che prevedono aiuti allo sviluppo. Condizionare gli aiuti può essere effettivamente di stimolo ad alcuni stati verso un maggiore impegno: ma bisogna vedere quali stati sono in condizioni di farlo. Contro le parole di Aznar è infatti subito insorto il commissario europeo per lo sviluppo, Michael Curtis, ribattendo che non si può far pagare ai popoli le inefficienze dei loro stati. E questo è il punto, autorevolmente sollevato anche dal cardinal Sodano nella sua lettera all’Assemblea dell’Organizzazione degli stati americani, riunitasi all’ inizio di giugno: bisogna rendersi conto che le leggi dei singoli stati tese a regolare i flussi migratori non sono sufficienti, ma devono essere accompagnate da altri tipi di provvedimenti, concertati internazionalmente, per aiutare le economie dei paesi di origine degli immigrati, quali un migliore aiuto finanziario e l’apertura dei mercati ai prodotti dei paesi di emigrazione. Se ci occupassimo solo dei flussi introdurremmo la figura del lavoratore “usa e getta”: un lavoratore immigrato che vada e venga a seconda della congiuntura, o che sia espulso magari dopo anni di inserimento attivo nella realtà economica e sociale italiana. Non bisogna dimenticare che si tratta di persone, che hanno le loro famiglie; c’è un rispetto dovuto alla persona che viene prima del riconoscimento della cittadinanza. Integrazione e dialogo Non si può certo dire che la legge approvata dalla Camera favorisca l’integrazione del lavoratore immigrato. E in Europa, recentemente, tira un’aria in gran parte simile, a dispetto degli importanti princìpi introdotti, a livello istituzionale, negli anni passati. Nell’Ottocento Marx parlava di un “esercito proletario di riserva” perennemente disponibile a entrare in fabbrica o ad uscirne a seconda delle esigenze del ciclo economico: una sovrabbondanza di lavoro che serviva per fare del salario dell’operaio – e della sua intera vita – una variabile totalmente dipendente dalle esigenze dell’economia. È una analisi che, con qualche aggiustamento, rischia di diventare attuale oggi; ed è paradossale che siano prevalentemente governi di destra europei a dare fiato ad un pensiero marxiano ormai dismesso. Quale migliore “esercito proletario di riserva”, infatti, di un folto gruppo di popoli poveri, che non chiedono altro che di lavorare, per utilizzarne la forza lavoro quando serve, e poi liberarsene senza dover fare i conti con i diritti che la cittadinanza darebbe al lavoratore? A questa posizione fa da corollario l’idea di non favorire affatto lo sviluppo dei paesi poveri, per non dover rinunciare a questo pozzo senza fondo di manodopera sfruttabile. L’integrazione dei popoli poveri nello svi- luppo avverrebbe dunque, secondo questa prospettiva radicalmente liberista, attraverso l’utilizzo dei loro lavoratori se e quando richiesti. Una posizione contraddittoria, di falso liberismo, che vieta l’intervento dello stato quando deve promuovere lo sviluppo altrui, ma lo richiede quando ha bisogno di leggi per controllare il mercato del lavoro. Ed ecco trasformato un problema politico – quello dello sviluppo integrale dell’umanità – in un problema di ordine pubblico. Se così fosse, la politica rinuncerebbe al suo ruolo decisionale, per farsi mera esecutrice di interessi economici parziali. Certamente, favorire l’integrazione significa moltiplicare la presenza, in Italia e in Europa, di comunità dotate di loro identità culturali e religiose, con le quali si deve imparare a dialogare e convivere. Ma il timore di una perdita dell’identità “occidentale” o “cristiana” (meno mi preoccuperei di quella “padana”) è tipico di chi le vive come identità deboli: se una cultura teme seriamente di perdersi perché si confronta con le altre, vuol dire che è già abbastanza debole da perdersi da sola. Le numerose esperienze di accoglienza di immigrati di altre culture e di convivenza con loro, che ci vengono dal mondo dell’associazionismo e del volontariato, testimoniano invece della possibilità di un arricchimento reciproco. È vero che non ci sono soltanto coloro che non vogliono integrare: ci sono anche quelli che non vogliono integrarsi, e che devono accettare, invece, un nucleo di valori, legati soprattutto ai diritti umani e alla dignità della persona, che sono essenziali all’acquisizione della cittadinanza così come l’occidente l’ha elaborata. Non si trascuri, inoltre, la grande possibilità di dialogo tra le religioni che si aprirebbe con una effettiva integrazione: un dialogo della vita, nel quotidiano, che può sorreggere anche il dialogo culturale e teologico, lontano dai condizionamenti che regimi politici fondamentalisti spesso impongono alle religioni, distorcendone la vera natura e oscurando gli elementi comuni che le grandi religioni possiedono. E infine, un altro tema che nell’attuale dibattito italiano ed europeo non dovrebbe essere dimenticato, è l’interpretazione da dare alla cittadinanza; non più basata sull’appartenenza etnica, sull’essere nati in una particolare nazione, ma sull’effettiva partecipazione alla vita di una comunità, attraverso il lavoro, lo studio, la condivisione dei problemi e degli impegni: ed è ciò che molti immigrati effettivamente già fanno.

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