Immigrati di successo
E l’Italia riparte. È lo slogan pubblicitario di una nota azienda di produzione d’idrocarburi che ci ha deliziato per tutta l’estate. Ma cosa serve all’Italia per ripartire?
Per restare nel settore dei carburanti, ho notato il cambiamento avvenuto in una stazione di servizio nel quartiere dove abito. Fino a 15 giorni fa era data in gestione a imprenditori e lavoratori provenienti da Paesi asiatici, che improvvisamente hanno preferito abbandonare l’attività. Sono subentrati gli impiegati italiani della ditta distributrice e si è notata subito la differenza. Mentre gli immigrati apparivano motivati, laboriosi, intraprendenti, gli italiani sembravano stanchi, lenti e demotivati. Uno scarto di energia subito evidente.
Nella stazione di servizio sono diminuiti i clienti e le promozioni. Così il fatturato è calato e l’Italia non riparte. Stay angry, cioè “resta affamato”, diceva Steve Jobs. Non è che il benessere, il consumismo, la vita comoda ci abbiano per caso un po’ imborghesito?
A seconda dei criteri di valutazione delle ricerche, si parte dai 230 mila imprenditori residenti in Italia con cittadinanza straniera, ma si arriva alle più di 400 mila se si considerano anche le imprese con il titolare nato all’estero ma cittadino italiano. Con il loro lavoro contribuiscono al 12 per cento del Pil nazionale e, mentre c’è una flessione d’imprenditori italiani fino al quattro per cento in meno, assistiamo a un aumento del sei per cento di imprenditori immigrati.
Muhammad Ajmal Shahid è un giovane pakistano di 32 anni che arriva in Italia nel 2001. Attraversa gli universi lavorativi del pizzaiolo, dell’imbianchino, del muratore e del lavapiatti, «ma ‒ racconta Muhammad ‒ pure fossi stato il più bravo del mondo, nessuno mi avrebbe dato fiducia». Nel 2006 la svolta. Fonda Impresa Service, una cooperativa di servizi che fornisce mano d’opera qualificata alle aziende 24 ore su 24, coprendo ogni tipo di necessità, dai lavori idraulici e agricoli, fino al facchinaggio e al volantinaggio. Oggi dà lavoro a 60 soci dipendenti: pakistani, indiani e italiani. «Ho creato un ponte ‒ spiega Muhammad ‒ tra lavoratori immigrati e aziende italiane e spero che in futuro ci sia più sostegno con uno sportello informativo per gli immigrati che vogliono sviluppare le proprie idee».
La dolcissima Elsa Javier, peruviana, nasce a Lima nel 1957 ma si trasferisce nel 1990 in Italia a causa di una malattia. A Roma risiede e si sposa. In Perù era docente di filosofia, in Italia deve reinventarsi un lavoro: badante e collaboratrice domestica, ma con una grande passione per la cucina.
Diventa chef internazionale e dirige per quattro anni un ristorante di cucina peruviana. Nel 2010 fonda l’associazione Semillas Latinas con l’intento di far conoscere i prodotti alimentari dell’America Latina. La sua filosofia è di unire modelli culinari provenienti dai cinque continenti partendo dalla vastissima biodiversità esistente in tutti i Paesi. «Conoscere la quinoa ‒ dice Elsa ‒, un grano che cresce sopra i 3200 metri sulle Ande, è una ricchezza perché è proteico e si può aggiungere, per esempio, al minestrone, rendendolo così un prodotto energetico completo». Per Elsa il caffè espresso, prodotto tipico italiano, è un ottimo esempio d’integrazione tra culture e tradizioni diverse. «Il caffè ‒ chiosa la donna ‒ non cresce in Italia ma l’espresso in tutto il mondo è italiano. Ci volevano il vostro palato e il vostro naso per saper creare la torrefazione. Insomma, non c’è bisogno di nascere in un posto per dare il meglio di sé stessi».
E le minoranze etniche nella storia sono state sempre fattore di sviluppo. Si pensi all’apporto delle comunità ebraiche in Europa nello sviluppo del credito e della finanza nel Medioevo, ai paria in India nell’economia tradizionale, ai moriscos in Spagna dopo la cacciata dei musulmani. «Com’è accaduto ‒ aggiunge Giuseppe Bea, responsabile immigrazione di Cna Epasa ‒ per le emigrazioni italiane all’estero, tutte le minoranze hanno dovuto lottare per affermarsi».
Una grande volontà, capacità di resistenza, motivazioni, tenacia sono tra i fattori di successo dell’imprenditoria immigrata. «Negli anni di maggiore difficoltà le aziende italiane chiudono con più facilità ‒ spiega Giuseppe Bea ‒, anche perché le imprese d’imprenditori immigrati possono esercitare una concorrenza maggiore, con turni di lavoro più ampi e un sostegno economico dalle loro comunità che gli permettono di restare sul mercato».
Tolgono così lavoro agli italiani? C’è chi lo pensa. Ma, siamone certi, la loro creatività è un pungolo anche per noi. Così come la loro voglia di lavorare e riuscire nella vita.