“Immagini amiche”

La politica dell'immagine nello spazio pubblico, per avere città rispettose della dignità del corpo.
immagine donna

Il meccanismo della pubblicità, espressione di un potere reale e trasversale, usa l’immaginario per colonizzare lentamente le nostre menti. Anche l’analisi politica dovrebbe partire da questa consapevolezza di un meccanismo pervasivo che tratta indistintamente l’elettore come un consumatore da considerare, secondo i maestri della propaganda, un soggetto fermo ad un continuo stato di preadolescenza. Non serve discutere o rendere ragione, ma solo apparire. Inutile proporre conferenze o stare nelle piazze, basta uno spot ben congegnato per convincere. È avvenuto così che la potente leva della liberazione da un’educazione sessuofobica, propagandata negli anni settanta, ha scoperto una vena d’oro sfruttata dall’industria culturale delle grandi aziende.

 

Un movimento culturale “eretico” come quello “situazioni sta” aveva intuito e definito il volto intimamente totalitario della «società dello spettacolo» dove siamo immersi. Proponeva un adesivo da porre, come una nuvoletta di un fumetto, sulle pubblicità che fanno uso del corpo della donna dandogli voce. Un messaggio che merita riproporre quasi integralmente: «Ciao, uomini! Sono la foto di una donna che non esiste. Ma il mio corpo corrisponde allo stereotipo che voi siete stati condizionati a desiderare… siete naturalmente frustrati. Siete nelle mani della gente che mi ha messo quassù. Possono convincervi a comprare oggetti che hanno fatto di cui pensate di avere bisogno, invece di prendere ciò che davvero volete e poiché l’immagine di soddisfazione che vi tengono davanti continua ad arretrare, come una carota di fronte a un mulo, continuate a lavorare senza fine per pagare più e più di ciò che è già vostro. Se continuate a vivere così, non sarete soddisfatti fino al giorno in cui morirete. Babbei!».

 

La cosificazione della persona per fini commerciali è arrivata ora, come possiamo vedere, anche a lavorare sull’immagine dell’uomo, dalla variante “machista” a quella “efebica”. Ma il vero colpo di genio, nella macchina del consenso omologato, è stato quello di far passare ogni dissenso verso questo sfruttamento della dignità umana come espressione del bigottismo di “codini” reazionari. Per questo è quanto mai significativo leggere alcuni segnali affiorati durante la recente festa della donna dell’otto marzo. Come la presentazione a Roma in una tavola rotonda del libro di Carmen Garcia Ribas “La sindrome di Maripili: come contrastare la pubblicità e gli stereotipi che offendono le donne”. L’evento si inserisce all’interno della campagna di pressione lanciata dall’Unione donne italiane, storica organizzazione di formazione laica, nata del 1944. Che non si può non condividere, al di là degli schieramenti politici.

 

L’iniziativa si chiama “Immagini amiche” è vuole letteralmente liberare le città come spazio pubblico dalle «immagini violente, volgari della dignità femminile» percepite come un danno per l’intera società perché «minano alla base la possibilità di una convivenza civile rispettosa dei generi». La pressione è rivolta verso una molteplicità di veicoli di immagini destinate a diventare pubbliche. Dalle riviste ad Internet. Ma è emblematico l’invito, rivolto alle amministrazioni locali, a gestire correttamente lo spazio di tutti, essendo ovviamente ben consapevoli che si tratta di «gesti difficili da compiere perché sono legati al denaro».

 

Un esercizio di partecipazione, dunque, contro la mercificazione del corpo umano ma esercitato in maniera propositiva, chiedendo di popolare la città di “immagini amiche”. Nel mondo della scuola si propone, ad esempio, di sollecitare ragazzi e ragazze a «guardarsi intorno e a fotografare con i cellulari le immagini che appaiono ai loro occhi come lesive della dignità delle donne e quali invece quelle amiche». “Guardarsi intorno”, alzare lo sguardo aiuta a porsi una questione del senso del vivere e del convivere.

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