Ilva, un caso italiano

Lavoro e ambiente dopo l’accordo con ArcelorMittal
Ilva Taranto

Alla fine la coalizione governativa Lega-M5S non ha proceduto alla nazionalizzazione del polo siderurgico dell’Ilva, che ha a Taranto la sua sede principale. Con l’accordo del 6 settembre 2018 la palla passa dai commissari di Stato, intervenuti dopo l’arresto per disastro ambientale della famiglia Riva, al colosso franco indiano ArcelorMittal che ha concluso un accordo sindacale confermato dal referendum tra i lavoratori. Ma la vertenza simbolo, in Italia, del conflitto indebito tra ambiente e lavoro suscita reazioni opposte nella società. Abbiamo chiesto il parere a Marco Bentivogli e ad Alessandro Marescotti.

Incremento dell’inquinamento con immunità penale
di Alessandro Marescotti, presidente di PeaceLink

Chi a Taranto fa una foto al ponte girevole si accorge subito dei camini dell’Ilva. E vede le nuvole bianche sprigionate dal basso, a ritmo continuo dalla cokeria. Uno sbuffo cancerogeno a cielo aperto. Sono le nuvole tossiche generate dallo spegnimento del carbon coke incandescente, a oltre mille gradi. A Taranto per tanto tempo le hanno considerate innocue: “vapore acqueo”.

Invece trasportano verso la città anche i micidiali idrocarburi policiclici aromatici, in particolare il benzo(a)pirene cancerogeno e mutageno. In quelle nuvole ci sono anche le polveri industriali tossiche che sforano i limiti autorizzativi (25 g/t) per le torri di spegnimento in cokeria. A Taranto per anni e anni è stata tramandata una favoletta a grandi e piccini. Ossia la credenza che respirare l’inquinamento avrebbe addirittura “rinforzato” le difese naturali dei bambini e delle persone in generale. Quando si parlava di inquinamento, si rideva: perché i tarantini si sarebbero immunizzati. Questa credenza (il “mitridatismo”) ipotizza una condizione di “immunità” dall’inquinamento dovuta all’assunzione costante di piccole dosi quotidiane.

Deriva dal re Mitridate che, per paura di essere avvelenato, cominciò a prendere il veleno a piccole dosi. Così hanno fatto a Taranto. La città è stata per anni e anni un laboratorio di ignoranza e malafede in cui tutte le forze politiche hanno mantenuto bassa la percezione del pericolo. Taranto si è svegliata da questa bolla di incoscienza quando si è formato un vero movimento ambientalista ed è scoppiato lo scandalo della diossina da cui è nato l’attuale processo per disastro ambientale. Da allora sono arrivati i terribili dati epidemiologici dell’Istituto Superiore della Sanità. Uno per tutti: +54% di tumori infantili rispetto al resto della regione Puglia. Per non parlare dei lavoratori Ilva. Due dati per tutti: +111% di tumori al cervello e +153% di tumori alla pleura.

A Taranto, a completare il disastro, è stata trasferita la produzione dell’area a caldo di Genova considerata cancerogena e incompatibile per la salute dei genovesi. E con 12 decreti è stata costretta la popolazione a chinare il capo e ad accettare quello che non era accettabile per Genova. Tutto questo ha un nome: razzismo ambientale. O, se volete, ne ha anche un altro: questione meridionale. Impianti chiusi a Genova perché pericolosi e tenuti aperti a Taranto perché “di interesse strategico nazionale”.

Salvo poi cederli a un indiano, a una multinazionale straniera. Sono stati ceduti impianti attualmente sotto sequestro penale perché ritenuti pericolosi. Ma producono egualmente. Tutto questo può apparire assurdo. E infatti il 99% di chi mi sta leggendo non lo sa. E non a caso: tutto questo non occupa una riga dell’informazione nazionale. Non lo sapete perché non deve essere reso noto che stanno producendo impianti sotto sequestro penale.

Il “governo del cambiamento” avrebbe dovuto cancellare questa vergogna e invece l’ha confermata in pieno. Non ha cancellato neppure uno dei decreti salva-Ilva contro cui i parlamentari pentastellati hanno strillato per anni. Una politica del gattopardo ha dichiarato di voler cambiare tutto per non cambiare più niente. Ma cosa era scritto nel contratto di governo Lega-M5S a proposito dell’Ilva? Ecco il testo: «Con riferimento all’Ilva, ci impegniamo, dopo più di 30 anni, a concretizzare i criteri di salvaguardia ambientale secondo i migliori standard mondiali a tutela della salute dei cittadini del comprensorio di Taranto, salvaguardando i livelli occupazionali e promuovendo lo sviluppo industriale del Sud, attraverso un programma di riconversione economica basato sulla chiusura delle fonti inquinanti, per le quali è necessario provvedere a bonificare, e sviluppo della green economy, energie rinnovabili, economia circolare».

Un impegno platealmente tradito. Non solo. Si profila infatti un aumento della produzione Ilva del 66% (dagli attuali 4,8 milioni di tonnellate/anno di acciaio a 8). Il ministro Di Maio ha promesso un taglio del 30% delle polveri e del 15% delle emissioni di CO2. Ma con un aumento del 66% della produzione il promesso taglio pentastellato del 30% per le polveri e del 15% per la CO2 sarà assolutamente insufficiente a contenere la pressione inquinante. Non è un caso che il M5S ha deciso di conservare l’immunità penale, l’odiata norma creata dal Pd, che fino al 2023 pone al riparo da inchieste e processi chi gestisce l’Ilva. Nel frattempo produzione, malati e morti possono anche aumentare: tanto c’è l’immunità penale. Tanto a morire saranno dei tarantini, parenti prossimi di quegli immigrati che crepano in mare mentre nel frattempo cambiamo canale, tra una forchettata di tagliatelle e un bicchiere di vino. Alla salute dei diritti umani.

Anni di scontro senza risultati 

Ora vigilare insieme su conciliazione salute e sviluppo

di Marco Bentivogli Segr. Generale Fim Cisl

La storia della vicenda Ilva è un classico del nostro paese: lo scontro, iniziato nel 1971 mentre al contempo di ampliava lo stabilimento e si cambiavano i piani regolatori per costruire sempre più  abitazioni nelle aree limitrofe. Anno in cui iniziavano i primi cortei per l’ambiente. Si sa, la produzione da ciclo integrale è la più impattante dal punto di vista ambientale: pm10, diossine, benzoapirene, sono i diversi cancerogeni prodotti, che possono essere drasticamente ridotto con l’utilizzo di tecnologie avanzate, come avviene in molte parti del mondo. In Italia no, lo scontro tra l’ambientalismo che considera impossibile produrre senza inquinare e l’industrialismo che considera uno scotto da pagare, i danni alla salute di lavoratori e cittadini. Altrove invece dello scontro i cittadini esigono dalla politica che si concili occupazione, sviluppo e salute.

Non smetterò mai di ripeterlo, l’epilogo positivo della vertenza Ilva è stato possibile grazie alla responsabilità delle organizzazioni sindacali. Non è stato ne indolore ne privo di danni, il lungo stallo che ha preceduto l’accordo ed ha determinato la perdita immediata di clienti, di capacità operativa e pure di competenze e rallentamento delle opere ambientali previste dall’AIA.

Non dimentichiamo che c’era chi, legittimamente, spingeva per chiudere.  Questa era la posizione, prima e durante la campagna elettorale, del principale partito del paese, che insieme all’Ilva aveva promesso di fermare anche la Tap. Un’idea molto simile a quella del governatore della Puglia. Ma non sarà facile dimenticare l’instabilità con cui il governo ha gestito l’ultimo miglio di questa vicenda. Il 23 agosto Luigi di Maio dichiarava: “La gara è illegittima ma non l’annullo”. Al di là dell’evidente incoerenza di queste parole, vale la pena ricordare che il ministro ha tenuto nel cassetto per oltre due settimane un parere dell’Avvocatura dello Stato che in sostanza gli dava torto: i requisiti per annullare la gara non c’erano.

L’intesa con ArcerlorMittal, che i lavoratori hanno promosso a stragrande maggioranza nel referendum di metà settembre, era la migliore possibile nelle condizioni date. L’accordo salvaguarda tutti i lavoratori e mette le basi per il rilancio industriale, la bonifica e il risanamento del sito. ArcelorMittal investirà complessivamente 4,2 miliardi; un altro miliardo – fondi derivanti dalla transazione con i Riva – verrà speso per le opere di bonifica. Sull’ambiente ci sono quasi 2,5 miliardi di euro.

Mentre in Italia si litigava la domanda di acciaio è ripartita. A livello globale sono state prodotte  8,4 milioni di tonnellate di acciaio in più (dati del luglio scorso rispetto allo stesso mese del 2017). La World Steel Association prevede che la domanda cresca anche nel prossimo biennio. Ora, Ilva ha una posizione strategica per le aree emergenti del mediterraneo, l’Europa del sud e il continente africano, e invece siamo l’unico paese dell’area Ocse che negli ultimi mesi sta rallentando. Avendo messo  fuori combattimento il nostro principale player, per soddisfare gli ordini dei loro clienti le nostre aziende sono dovute ricorrere in modo massiccio alle importazioni, in particolare dalla Germania. Per questo sostengo che la vicenda Ilva ha dato una pessima immagine del nostro Paese al mondo; è come se avessimo detto: “Se dovete investire state alla larga dall’Italia”. Ci vorranno decenni di buone politiche per cancellare questo messaggio devastante.

La questione occupazionale non è però l’unica che deve starci a cuore. Oggi la parola industria non può pronunciarsi disgiunta dalla parola ambiente. Per questo nel caso dell’Ilva ho sempre visto l’ambientalizzazione, la bonifica di tutto il territorio, la realizzazione di una fabbrica eco-sostenibile, in parallelo ad un vero lavoro di sorveglianza sanitaria ed epidemiologica di cittadini e lavoratori come una grande sfida. Considero a portata di mano, anzi lo ritengo uno dei ruoli propri di un sindacato moderno, conciliare sviluppo, ambiente e occupazione. Detto questo mi hanno meravigliato le affermazioni sull’addendum al piano ambientale del ministro Costa, che ha rivendicato al governo il merito di averlo migliorato. Ricordo infatti che il parere del suo ministero sull’addendum era stato positivo allorché Mittal lo presentò nel luglio scorso. Siamo stati noi, successivamente, a chiudere ed ottenere un’ulteriore integrazione a quegli impegni.

In conclusione, con la ripartenza dell’Ilva il nostro sistema industriale segna un punto importante al suo attivo, ma non cancella il dato di fondo di un paese permeato dal pregiudizio antindustriale e da una cultura allergica alla competitività. Se vogliamo veramente costruire un futuro diverso è da qui che dobbiamo ripartire. Spero di poter vigilare e operare finalmente insieme alle associazioni ambientaliste per verificare che la fabbrica non produca più malattie e morte ma acciaio di alta qualità. Se così non dovesse essere non saremo secondi a nessuno a chiedere interventi strutturali perché il diritto alla salute sia preservato.

 

 

 

 

 

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