Iliade a metà
Ho lavorato ad un testo più corto, in un italiano normale; e ho pensato a una dura storia di uomini in guerra, dove dei e creature mitiche sfumano sullo sfondo, ormai diventati inutili. So che tutto questo suona tremendamente ambizioso (riscrivere Omero?), ma in realtà io lo interpreto come un modesto lavoro di servizio: è come una traduzione, un adattamento…. Alessandro Baricco, classe 1958, spiega il significato della sua operazione culturale, in uno spettacolo che possiede una precisa identità di pensiero e di conseguenza una possibile, se si vuole, realizzazione artistica. Lo spettacolo – a Roma, al Parco della Musica per RomaEuropa Festival (e poi alla Cavallerizza a Torino) – è accattivante. Su un palcoscenico spoglio, attori a piedi nudi, rileggono per un pubblico vasto – fitto di giovani – la ventina di monologhi racconti in soggettiva, di deciso impatto narrativo. Baricco infatti si definisce un narratore: qui, nella trasmissione della rilettura omerica, svela d’altronde tutte le sue carte di affabulatore, camminando su e giù per il palco, giocando brillantemente con le parole in modo da tenere gli ascoltatori tesi ad ascoltare lui, prima di tutto. A Roma, gli attori sono tutti (o quasi) molto partecipi, complici le musiche capziose di Giovanni Sollima e il canto della svizzera Risie Wiederkher, che nel monologo di Andromaca, realmente forma con il violoncello una cosa sola, lugubre e affannata. Spettacolo certo coinvolgente. L’operazione, tuttavia, il servizio che proclama di voler fare agli ascoltatori, lo svolge in modo piuttosto riduttivo. Baricco è ambizioso. Ambiziosa è l’affermazione che l’Iliade sia in realtà un’Achilleide, ove Achille è un’energia pura intorno a cui tutto si muove, anche quando sta rinchiuso sdegnato nella sua tenda. Se è vero che il poema inizia con l’ira dell’Eroe, è pur vero che esso poi si apre ad una visione molto più ampia di quella che si vorrebbe far credere, quando Baricco tranquillamente richiama, da buon affabulatore, addirittura l’epopea western. Forse non si rende conto dell’autogol: l’Iliade non è narrazione di gesta simili, perché il contenuto ideale è assolutamente diverso, come differente è l’ambiente, la civiltà. Per quanto lo si voglia modernizzare, il poema è un unicum nella storia della poesia universale. L’operazione di Baricco snatura l’anima del testo, ci impedisce di coglierne la specificità. È tutto sommato, una visione pressoché hollywoodiana, che richiama – come ha notato Il Sole 24 ore – il filmone Troy appena uscito, in cui, pur di adattare l’antico al gusto d’oggi si deforma Omero. Ma Troy in fondo è una fiction – una finzione -; qui invece si tratta di un lavoro che ha pretese da evento culturale e massmediatico. Perché ogni volta che si affronta un capolavoro universale, che ha formato generazioni per secoli, lo si voglia o meno, si fa un’operazione di cultura: il che equi- vale ad una scelta di linea di pensiero, ad un modo di approccio che esigerebbe l’umiltà intelligente che adatta il testo antico, ma non lo violenta. Baricco coscientemente ha scelto di eliminare del tutto l’elemento sovrannaturale. Egli stesso afferma che il tagliare le apparizioni degli dei… non è probabilmente un buon sistema per recuperare quella storia riportandola nell’orbita delle narrazioni a noi contemporanee. Ha ragione. Baricco infatti sa – o dovrebbe sapere – che nel mondo antico l’uomo viveva in una dimensione costantemente coinvolta nel sovrannaturale. Qualsiasi fatto naturale, umano o sociale rientrava nella sfera del sacro e in questo modo veniva interpretato. Si potrà discutere sul valore e sul senso di questa sacralità, ma non si può toglierla: sarebbe ridurre il poema omerico – e la comprensione del mondo antico – a mera successione di fatti di guerra e di pace, in un concatenamento appiattito di vite e di morti. Significherebbe inoltre – e crediamo nessuno abbia il diritto di farlo – di violentare un testo per fini diversi da quelli per cui è stato concepito. Cosa succederebbe se un restauratore troppo sicuro di sé volesse, ad esempio, rimodernare la Gioconda per darle un’impronta in techicolor (come purtroppo sta accadendo a tante opere del passato)? Il mondo degli dei e degli uomini, ridiciamolo, non è mai separato nella classicità: manifestazioni, concili, combattimenti di dei contro dei non sono favolette da espungere, ma parole visioni dell’uomo, tentativi di risposta, di dar senso al cosmo, al mondo, alla vita di chiunque sulla terra. L’Iliade perciò non è solo la storia dell’ira di Achille sotto le mura di Troia, non è solo una saga eroica, ma una bibbia del mondo non-ebraico, in cui cosmogonia, filosofia, teologia, epica e poesia si avvicendano e si intersecano canto dopo canto con assoluta coerenza di pensiero e d’arte. Dispiace l’operazione di Baricco. Che è astuta e non sembra un ottimo sistema per recuperare quella storia riportandola all’oggi… visto che elimina la comprensione globale di una civiltà dalla cui costola siamo anche nati. Non è questione di dei o di miti. Si tratta della capacità o meno di rispettare un’opera d’arte, non snaturandola per la propria autoaffermazione o per adeguarsi al neoilluminismo culturale che a forza elimina il sacro e il mistero dal passato – e dal presente – come qualcosa di subumano. Perché, come giustamente si è sintetizzato il poema in monologhi affidati a personaggi esemplari (Agamennone, Andromaca, il Fiume, Antiloco, Priamo…) non fare altrettanto con Atena o Apollo, figure così dominanti nel poema? E perché ridurre gli inserti descrittivi tipici di Omero nelle sei-sette ore durante tre serate? Lo spazio alla poesia autentica, ai momenti forti è davvero poco, e inflazionato dai commenti del narratore. Dalla fiction di Baricco non risulta l’Iliade di Omero. Ma una storia molto televisiva, a forti e semplificati effetti emotivi. Dove il pubblico è continuamente sollecitato ad entrare nella narrazione nazional-popolare di un’epopea che davvero con Omero c’entra assai poco. Perché il vero protagonista è lui, Alessandro Baricco (che naturalmente ha già pubblicato il tutto sull’ennesimo volume). SFORTUNE E FORTUNE DI DANTE Il Corriere della Sera ha promosso e da poco concluso una rilettura di Dante che ha impegnato molte firme più o meno illustri e più o meno attinenti; e che, devo dire, ho trovato molto deludente. A prescindere dai singoli, più o meno validi, risultati di interpretazione e attualizzazione, ho costatato molto sbagliato proprio quest’ultimo criterio, il voler fare Dante, come si dice, moderno; perché i grandissimi poeti: Omero (vedi sopra), Dante, Shakespeare, sono loro a interpretare noi, non noi loro, e se vogliamo rovesciare le parti diventiamo mosche cocchiere. Perciò ammiro caldamente l’altra opera, quella di Vittorio Sermonti, che legge Dante qua e là in tutta Italia raccogliendo piccole o meno piccole folle di ascoltatori motivati e serissimi, e pronuncia e scrive ottimi commentari, disponibili nelle edizioni Rizzoli, cercando di riempire il buco clamoroso che si è aperto nella scuola italiana; dove Dante è sempre più ideologicamente censurato o minimizzato o marginalizzato, perché portatore di un messaggio tanto altamente poetico quanto, e inseparabilmente, cristiano; e dove la gran parte degli insegnanti più giovani, diseducati nelle università dai cascami dello strutturalismo più tecnicistico, sa che cos’è un attante ma non è in grado, anche se volesse, di spiegare Dante perché non ha le sufficienti cognizioni filosofiche, teologiche, e storiche (non ridotte a cronaca di storia materiale). Vittorio Sermonti fa ciò che analogamente fa il fratello Giuseppe (accuratamente emarginato dalla cosiddetta cultura, leggi ideologia, scientifica), il quale distingue tra evoluzione, vera, ed evoluzionismo falso. Vittorio, con Dante opera non diversamente: ce lo avvicina facendo avvicinare noi a lui, non travestendolo da falso antico che strizza l’occhio ai moderni, intelligente quasi quanto loro.