Ilham, insegnante in Azerbaijan
Dopo gli appuntamenti di lavoro a Baku, capitale dell’Azerbaijan, ecco qualche ora dedicata ad amenità varie. Ilham, fedele traduttore e accompagnatore, mi invita a pranzo in un ristorante pulito e moderno, animato da cameriere che indossano discrete minigonne. Ed è proprio nel corso del pranzo che il mio compagno di pochi giorni intensi mi racconta qualcosa di sé: «Ad un certo punto della mia vita – mi dice –, mi sono ritrovato con una latente insoddisfazione. Non sapevo che fare, come orientarmi. Vagavo nell’incertezza di una vita che si annunciava normale, direi banale e insignificante. Come mia massima aspirazione avevo quella di diventare professore e poi direttore di un istituto scolastico. Ma, poco alla volta, nel mio animo si è fatto strada un pensiero col sapore della coscienza: l’importante non sarebbe stato “quello” che avrei fatto, ma “come” l’avrei fatto. Potevo cioè condurre un’esistenza incolore, centrata su famiglia, carriera e denaro, oppure avrei potuto far qualcosa di diverso, e mettermi al servizio del prossimo».
Fu proprio in quel periodo che alcuni colleghi di università di Ilham lo invitarono a giocare qualche partita di pallone: erano persone sincere, avevano il sorriso sulle labbra e sembravano soddisfatti della loro vita, cosa che incuriosiva Ilham. «Qualcosa mi attirava in loro – spiega –. Ho capito più tardi che si trattava di musulmani che credevano in un Islam spirituale. Avevano qualcosa che li apparentava al sufismo, ma non avevano nulla delle confraternite un po’ chiuse di quella tradizione. Altri tre gruppi di studenti universitari mi avevano contattato: dei radicali che predicavano un Islam schierato contro l’Occidente e contro il peccato dei traditori; dei liberali che, al contrario, sembravano volere una Turchia risolutamente costruita sul modello laicista alla francese propugnato da Atatürk; e dei semplici goliardi, che volevano godersi la vita. Mi sono accorto che stavo bene solo con gli amici del pallone».
Facevano parte del Gülen Movement. Ilham da tanti anni lavora per le scuole ispirate da questo mistico-pratico sufi. Nove anni li ha trascorsi all’estero, con moglie e figlio, in condizioni non sempre facili. Lavora anche tredici ore al giorno, per un salario che è sufficiente per vivere decorosamente, ma nulla più. E trova ancora il modo di contribuire, con il superfluo della vita familiare e d’accordo con la moglie, alla “causa”. Tanto di cappello.
Il ristorante si trova nella zona pedonale che attornia la grande Piazza delle fontane. L’acqua oggi, fatto raro, scorre copiosa, in onore del presidente bulgaro in visita in Azerbaijan. È lo “struscio” di Baku. I passanti paiono gentili e rispettosi. Poi, con un folle giro in auto nel traffico impazzito, Ilham mi conduce in visita al gioiello architettonico della città, il palazzo degli Shirvan Shah, iniziato da Khalilullah I nel XV secolo, su una serie di terrazze che dominano la città. Potrebbe sembrare poca cosa per noi, abituati alla bulimia da monumenti millenari, ma per Baku questo gioiello è non raggiunto e irraggiungibile. Su una parete del cortile cerimoniale del palazzo, ben visibile su una lastra di pietra in quel punto rossastra – sembra quasi imbevuta di sangue, ma non lo è –, appaiono i fori provocati dall’impatto delle pallottole armene quando i soldati nemici arrivarono nella città, nel 1918. Furono diciotto i morti ammazzati su queste pietre. «Facciamo fatica a seppellire il passato – fa la mia guida –, soprattutto quando è in gioco il nazionalismo. È un peccato, perché così ci chiudiamo nel tunnel delle ripicche e delle violenze gratuite. Mentre la nostra gente meriterebbe di capire che nulla è meglio della serenità dei cuori e della pace tra le nazioni».
Ilham ha la faccia rotonda e sana d’un uomo sì curato dai genitori, ma non viziato. I suoi gesti sono pacati, come se prima di ogni movimento ci mettesse un’intenzione. Il suo inglese è preciso e scolastico, didascalicamente chiaro, pronunciato con la bocca bene aperta, come se Ilham stesse ancora insegnando ai suoi allievi. Sembra soddisfatto del compito assegnantogli, quello di accompagnarmi nel mio soggiorno azero.
Non mi aspettavo di trovare nell’Islam un gruppo come il Gülen Movement, che si presenta in modo assai informale, composto da milioni di persone che predicano ma soprattutto praticano l’Islam misericordioso e clemente, spirituale, tollerante. Testimone. A fondarlo è stato Fetullah Gülen: classe 1938, una vita avventurosa, segnata dall’incontro con un grande mistico sufi, Said Nursi, ispiratore di una vita. Gülen e il suo movimento hanno alle spalle una storia assai travagliata, intrecciata con quella di una Turchia impregnata di laicità, e talvolta colpita dagli eccessi del laicismo. Un movimento che – perché a lungo perseguitato – si è sviluppato in modo adeguato alla modernità, estendendosi in ambito mediatico (ispirano il secondo quotidiano e la terza rete televisiva turchi), in associazioni di dialogo e di impegno civile, in istituzioni scolastiche e universitarie diffuse in tutto il mondo, addirittura in una cinquantina di paesi. Si potrebbe definirlo un impero, il loro, se non fosse tenuto assieme solo dal legame esclusivamente spirituale dei suoi membri.
Ilham mi spiega il modo di funzionare della sua scuola: «Qui vengono accolti bambini e giovani di ogni religione, maschi e femmine, senza discriminazione alcuna. L’insegnamento è dei migliori, sugli standard europei d’eccellenza, e la didattica non è solo nozionistica, come avviene in tanti Paesi arabi e musulmani, ma aperta al ragionamento e alle scienze esatte, a una ragione critica costruttiva. La religione? l’Islam va vissuto. Va proposto e non imposto. Va maturato nell’intimo e nei fatti e spiegato a parole solo se l’interlocutore, sollecitato dal comportamento del discepolo, pone domande esplicite sul suo essere musulmano». Roba da non credere per tanti di noi occidentali che pensiamo l’Islam solo come religione delle bombe e del proselitismo forzato.
Sono passato prima di partire da Baku per la casa di Ilham, un modesto appartamento arredato alla turca: divani e poltroncine lungo le pareti, frasi coraniche ai muri, tappeti a ricoprire l’intero pavimento, bassi tavolini per servire tè e pasticcini. Ho bevuto un çai con la moglie, una donna minuta e umile, dalla cultura superiore alla media, come testimoniano i libri che occupano una parete intera del salotto, in turco, in inglese e in arabo. Ho così sperimentato l’attenzione con cui i due onorano l’ospite e cercano di realizzare ogni suo minimo desiderio. Ho visto sui loro scaffali i libri di Fetullah Gülen usati e strausati, ma non “sacralizzati”, poggiati accanto all’immancabile Corano.