Il Woyzeck di Wilson
Architetture luminose. Segni astratti, geometrici. Un trionfo di cromatismi puri, di quadri animati sui quali si staglia un minimalismo coreografico che risente di atmosfere avanguardiste. C’è tutto questo ed altro ancora nel Woyzeck firmato da Robert Wilson e magistralmente musicato da Tom Waits. Un concentrato di arte visiva – e musicale – del Novecento: Mondrian, Magritte, Kandinsky; le marionette futuriste di Schlemmer, il cinema espressionista e le maschere grottesche di Grosz; il design, la pop art, il fumetto. E il musical. Già in apertura, su un fondale pittorico, convergono tutti i personaggi a raccolta, inclusi giocattoli in miniatura, e quel bambino – figlio di Woyzeck ma anche il protagonista da piccolo – che per quasi tutto lo spettacolo starà in scena. Forse a suggerire, per Wilson, lo sguardo innocente sulla vita. Senza dubbio uno degli spettacoli più belli del regista texano. Due ore intense, senza cedimenti narrativi, né stanchezza visiva, per raccontare e cantare del soldato di George Büchner: storia di quotidiana emarginazione, di incapacità o impossibilità di ribellione nella vicenda emblematica di un uomo semplice, barbiere dell’esercito, cavia di esperimenti pseudo- scientifici, tradito dalla donna che ama e, in generale, dal genere umano. Testo frammentario e incompiuto (1870), ben si presta a quel vocabolario scenico di Wilson che riserva sempre nuove folgorazioni. I colori netti o sfumati delle luci che esplodono in scena sono drammaturgia. Esprimono una poetica dei sentimenti. Disegnano stati d’animo, o il sopraggiungere di azioni. Un esempio per tutti: la mano illuminata di rosso che s’insanguinerà affondando un pugnale nel corpo bianco di Marie dopo la richiesta – vana di lei -, di perdono, che riscatterebbe la loro esistenza. Cast tutto danese, applauditissimo. Per una messinscena da ricordare. Teatro da mangiare e da ascoltare C’è un teatro che ama dimensioni di ascolto più intime; che privilegia spazi inediti. Nel filone di questa tendenza sempre più diffusa, che manifesta un bisogno diverso di comunicare, si colloca in modo originale l’emiliano Teatro delle Ariette col suo Teatro da mangiare. Un invito a pranzo (o a cena) reale, durante il quale, vinto il disagio iniziale, si condivide con altri 25 commensali il piacere di un rito ordinario. I tre attori ci accolgono tra fornelli e vettovaglie invitandoci a prendere posto attorno ad una tavolata. E mentre cucinano (tutti alimenti a base dei loro prodotti) e ci servono da mangiare, raccontano la loro storia di attori-contadini. Dagli anni del teatro di ricerca, al ritiro in campagna, alla produzione alimentare in proprio, alla necessità infine di ritornare alla scena per condividere i propri pensieri e la propria esperienza. Così, tra varie pietanze, un bicchiere di vino e un finale di tagliatelle, ascoltiamo brani di vita personale, attraverso lettere, ricordi, canti e poesie, strappando riflessioni sull’esistenza: sull’amore e il ricordo, la morte, il dolore, le piccole gioie. Proprio come quando a tavola, con persone amiche, ci si lascia andare a confidenze e si ha voglia e tempo di ascoltare. Ancora una volta l’arte si mescola con la vita. È un percorso solitario, invece, l’installazione-spettacolo per venti spettatori – seduti o itineranti – concepito da Mario Martone, de Nella solitudine dei campi di cotone, progetto nato per una regia radiofonica. Nel buio appena rischiarato di un labirinto all’interno dell’Auditorium di Mecenate, il testo di Bernard- Marie Koltés si ode soltanto, amplificato dalla voce registrata dei due interpreti Claudio Amendola e Carlo Cecchi: un “venditore”, che forse non ha nulla da vendere, e un “cliente”, che non sa quello che inconsciamente vuole e probabilmente non intende comprare. I due si scontrano verbalmente nella notte, fino al duello finale in cui uno chiede all’altro di scegliere l’arma. In questa enigmatica e inquietante allegoria dell’uomo d’oggi che ha perso di vista il Trascendente, è l’eterna ambivalenza del rapporto tra carnefice e vittima, il mistero pacificato o cruento della reciproca sopraffazione. L’evocazione di un luogo drammaturgico e mentale, dal forte fascino, che ne fa Martone, infittisce il mistero. E uscendo ci lascia la consapevolezza della solitudine che possono generare le parole quando non ci si vuole scoprire nella verità dei propri sentimenti. Roma,”Le vie dei festival”.