Il viaggio di Francesco nel Caucaso

Georgia e Azerbaijan condividono un comune destino di ex Paesi comunisti, con processi democratici ancora incompiuti, in un’area periferica tra Europa e Asia, ma non marginale per gli interessi economici, geopolitici e culturali. Impressioni sulla visita del papa
Caucaso viaggio papa

Conflitti etnici. Bombe. Attentati. Il Nagorno‒Karabakh evoca scenari di guerra. È il lungo conflitto tra Armenia e Azerbaigian riesploso quest’anno nella regione caucasica attraversata da oleodotti e gasdotti. Morti e feriti, con una fragile tregua firmata a maggio a Vienna sotto l’egida dell’Onu. Il papa è per la seconda volta nel Caucaso come messaggero di pace. Dopo la prima tappa in Armenia, dove in giugno ha invocato la pace e condannato il commercio e la proliferazione delle armi, la seconda tappa è in Georgia e Azerbaigian.

 

La Georgia, da sempre, vive sotto l’influsso dell’impero russo, così come il resto della regione, ma avendo confini comuni sente di più la presenza di Mosca. Nel 1921 è invasa dall’Armata sovietica e, un anno dopo, la Georgia è annessa all’Urss. Stalin, uno dei più sanguinari dittatori della storia, è georgiano e la sua statua è rimossa dalla sua città natale, Gori, solo nel 2010. Il 1991 è l’anno dell’indipendenza dall’Unione Sovietica quando riesplodono i conflitti etnici nelle regioni separatiste meridionali. Shevardnadze, già ministro degli esteri sovietico con Gorbaciov e personaggio di spicco della perestroika, con la sua elezione alla guida del Paese, rende possibile un nuovo avvicinamento con Mosca.

 

Nel 2008 è di nuovo guerra. Nuovi conflitti etnici nascono nelle regioni separatiste dell’Ossezia del Sud e dell’Abcasia. Putin invia il suo esercito in aiuto degli osseti e degli abcasi fedeli al Cremlino e cresce in Georgia la voglia, mai sopita, di affrancarsi dall’influenza russa nella regione.

 

Mentre la Georgia è un Paese a maggioranza cristiana, l‘Azerbaigian è a stragrande maggioranza musulmana. Condividono un comune destino di ex Paesi comunisti, con processi democratici ancora incompiuti, in un’area periferica, tra Europa e Asia, ma non marginale per gli interessi economici, geopolitici e culturali. Delle tre repubbliche del Caucaso meridionale l’Azerbaigian è la più grande e la più popolata. Il Paese è in continua crescita per le grandi risorse petrolifere del mar Caspio che, però, causano inquinamento e devastazione ambientale.

 

In questo contesto, si può dire che il papa, nel suo 16° viaggio apostolico, sceglie ancora le periferie, un territorio ponte tra Europa e Asia. «Non è stato a Parigi, Londra, Berlino ‒ ha dichiarato Andrea Riccardi, fondatore della comunità di Sant’Egidio a Voci del mattino di Radio1‒ ma si reca nei luoghi dei conflitti. Sta creando una grande rete per la pace e la riconciliazione. Egli rappresenta per i cristiani il primate, il punto di riferimento, non da un punto di vista teologico, giacche esistono controversie secolari che la dottrina non ha risolto, ma lo rappresenta di fatto. La globalizzazione ‒ ha concluso ‒ non ha creato un mondo cosmopolita, anzi spesso ha esacerbato le differenze e i contrasti. E papa Francesco vuole riempire i vuoti della globalizzazione con un messaggio di vicinanza spirituale ed umana, affermando che la violenza e la guerra lasciano un mondo peggiore e tutti siamo sconfitti da esse».

 

Il presidente della Georgia, Giorgi Margvelashvili, ha ricordato al papa la situazione dell’Ossezia del Sud e dell’Abcasia, legate a Mosca anche se in territorio georgiano. Nel suo discorso nel cortile d’onore del palazzo presidenziale di Tbilisi, papa Francesco ha evidenziato la necessità di una «pacifica coesistenza fra tutti i popoli e gli Stati della Regione. Ciò richiede che crescano sentimenti di mutua stima e considerazione, i quali non possono tralasciare il rispetto delle prerogative sovrane di ciascun Paese nel quadro del diritto internazionale». Il conflitto in Georgia è soprattutto etnico e in Armenia ha sfumature religiose e il papa ha aggiunto che «qualsiasi distinzione di carattere etnico, linguistico, politico o religioso, lungi dall’essere usata come pretesto per trasformare le divergenze in conflitti e i conflitti in interminabili tragedie, può e deve essere per tutti sorgente di arricchimento reciproco a vantaggio del bene comune».

 

Non sono state celate neanche le difficoltà con la Chiesa ortodossa autocefala georgiana, anche se il clima è stato molto cordiale e amichevole. La Chiesa ortodossa in Georgia rappresenta il 54% dei suoi 4,5 milioni di abitanti. È una delle chiese ortodosse meno aperte al dialogo ecumenico. I fedeli della Chiesa cattolica, invece, non raggiungono l’1% della popolazione e a Tiblisi, la capitale, esiste una sola parrocchia.

 

Uno dei problemi è la pratica del “ribattesimo”: la chiesa ortodossa non riconosce il battesimo cattolico e sono molti i giovani cattolici costretti a ribattezzarsi per sposare un partner ortodosso. Il papa di fronte a Ilia II, Catholicos patriarca di tutta la Georgia, non ha nascosto le difficoltà ma non vuole «siano impedimenti, ma stimoli a conoscerci meglio». E nella cattedrale patriarcale di Svetitskhoveli ha ribadito come «nonostante i nostri limiti e al di là di ogni successiva distinzione storica e culturale, siamo chiamati a essere “uno in Cristo Gesù” (Gal 3,28) e a non mettere al primo posto le disarmonie e le divisioni tra i battezzati, perché davvero è molto più ciò che ci unisce di ciò che ci divide».

 

Di una grandissima profondità spirituale, da leggere per intero, l’omelia tenuta dal papa presso lo Stadio M. Meskhi di Tbilisi. «Beate le comunità cristiane ‒ ha tra l’altro detto ‒ che vivono questa genuina semplicità evangelica! Povere di mezzi, sono ricche di Dio. Beati i Pastori che non cavalcano la logica del successo mondano, ma seguono la legge dell’amore: l’accoglienza, l’ascolto, il servizio. Beata la Chiesa che non si affida ai criteri del funzionalismo e dell’efficienza organizzativa e non bada al ritorno di immagine».

 

Nel pomeriggio, nel suo incontro con sacerdoti, religiosi, religiose, seminaristi e agenti di pastorale nella Chiesa dell’Assunta di Tiblisi, ha parlato a braccio, suscitando simpatia per le sue improvvise battute e ammirazione per la sua chiarezza nel prendere posizioni. Ad una domanda sul gender ha risposto: «Oggi c’è una guerra mondiale per distruggere il matrimonio. Oggi ci sono colonizzazioni ideologiche che distruggono, ma non si distrugge con le armi, si distrugge con le idee. Pertanto, bisogna difendersi dalle colonizzazioni ideologiche».

 

E a Irina chiede: «Tu sai chi paga le spese del divorzio? Due persone, pagano. Chi paga?». Irina risponde: «Tutti e due». E il papa: «Tutti e due? Di più! Paga Dio, perché quando si divide “una sola carne”, si sporca l’immagine di Dio. E pagano i bambini, i figli». Mostrando, ancora una volta che è un papa che segue alla lettera la dottrina cattolica sul matrimonio, ma ha ben presente i limiti della società odierna, le sue fragilità. Nel tempo vuole cambiare l’approccio pastorale, senza fretta.

 

Come ben spiegava nella Evangelii Gaudium al punto 222. «Vi è una tensione bipolare tra la pienezza e il limite. La pienezza provoca la volontà di possedere tutto e il limite è la parete che ci si pone davanti. Il “tempo”, considerato in senso ampio, fa riferimento alla pienezza come espressione dell’orizzonte che ci si apre dinanzi, e il momento è espressione del limite che si vive in uno spazio circoscritto. I cittadini vivono in tensione tra la congiuntura del momento e la luce del tempo, dell’orizzonte più grande, dell’utopia che ci apre al futuro come causa finale che attrae. Da qui emerge un primo principio per progredire nella costruzione di un popolo: il tempo è superiore allo spazio». Le riforme, insomma, si attuano nel tempo.

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