Il viaggio di Francesco a Gerusalemme raccontato da Paolo Lorìga
Il viaggio in Medioriente di papa Francesco ha scandito una delle tappe più importanti di questo pontificato. Il viaggio in Giordania e Israele e l’“invocazione della pace” nei Giardini Vaticani sono stati gli eventi più visibili di un processo nel quale Francesco si è offerto come strumento, egli stesso, verso la pace tra i popoli e la libertà delle religioni in quella regione. Parte da questo assunto, il giornalista Paolo Lòriga nel suo libro, ora in uscita per Città Nuova, Francesco e Gerusalemme. Sfida religiosa e politica. E continua «Ecco la sua visione di Chiesa e di papato: mettersi in cammino con gli altri uomini, condividere le loro esistenze, in modo che la Chiesa non si limiti a custodire la verità, ma la scopra sempre rinnovata procedendo passo dopo passo con Gesù a fianco delle persone». Il volume, che sarà presentato a Roma giovedì 11 dicembre prossimo presso il Centro Russia Ecumenica alle 18, mette a disposizione del lettore la visione e anche le emozioni di chi ha seguito il Papa nelle tappe di questo impervio cammino verso la pace. Pubblichiamo l'intervista concessa dall'autore all'agenzia Aleteia.
Qual è il progetto di Francesco per il Medio Oriente?
«Penso che non abbia un progetto definito, se non quello dell’urgenza della pace per questi popoli che vivono in una situazione di enorme sofferenza e di assoluta mancanza di prospettive. Si muove e si muoverà a piccoli passi, partendo dalla consapevolezza di quello che ha maturato stando ad Amman, a Gerusalemme e a Betlemme, avendo assunto su di sé il dolore di questi popoli. Si è fermato al Muro del Pianto ma anche a quello della divisione, ha incontrato le famiglie dei palestinesi nelle loro situazioni di grande sofferenza, ma allo stesso tempo è stato anche al memoriale dello Yad Vashem a ricordo della Shoà: si sta muovendo a piccoli passi con la consapevolezza che le religioni possono svolgere un grande ruolo. Da qui viene l’accelerazione non solo per il dialogo, ma anche per la collaborazione con le altre Chiese cristiane. Un ruolo grande sta svolgendo l’amicizia e la sintonia soprattutto spirituale, direi strategica, con il patriarca Bartolomeo, l’abbiamo visto qualche giorno fa: Francesco chiede ad una Chiesa ancora divisa, ma con una maggiore propensione all’unità, una collaborazione per andare incontro alle altre due grandi religioni, l’Ebraismo e l'Islam».
Pace nel caso del Medio Oriente è una parola che vuol dire tante cose: è un percorso o un’idea definita, per Papa Francesco?
«Lui si pone, da quello che ho colto stando lì e seguendo i vari appuntamenti in quelle tre giornate decisive ma anche nel cammino successivo che ha compiuto, non come protagonista ma come compagno di cammino degli altri. La pace, soprattutto lì, è una strada complessa, che ha tante valenze: non basta far tacere le armi perché si possa cominciare un cammino di pace. C’è da ritrovare soprattutto la fiducia, e la fiducia parte dai rapporti interpersonali. Per questo quando era lì a Gerusalemme è andato a bussare alla porta del Gran Rabbinato, alla porta del Gran Muftì. Perché se non si parte dai rapporti interpersonali – lo abbiamo visto durante l‘invocazione alla pace nei Giardini Vaticani, dove il rapporto con Abbas e con Peres era penetrato dalla fiducia – la pace resta una chimera. Papa Francesco sta indicando proprio questo: attraverso i rapporti interpersonali si può ritrovare fiducia. Non è un caso che lì abbia ritrovato due grandi amici, il rabbino e l’esponente del mondo dell’Islam, per trasmettere al mondo questo messaggio: “li conosco, ci conosciamo, questa fiducia e questa amicizia possono spalancare la porta alla pace».
Chi è Papa Francesco, per chi lo guarda da Gerusalemme?
«E’ un grande testimone, un uomo di Dio che non si fa forte della sua leadership della Chiesa cattolica ma vuol concorrere con gli altri responsabili delle religioni per servire l’uomo senza distinzione alcuna, facendo sue la memoria del dolore e le ferite aperte di ciascun popolo. E lì Gerusalemme è davvero l’icona delle periferie, delle difficoltà e delle sofferenze dell’umanità».
Quali sono gli ostacoli e le resistenze a questo percorso?
«Non voglio azzardarmi a interpretare il pensiero del Papa su questa materia così delicata e complessa. Certo c’è una situazione di precarietà della sicurezza lì in Terra Santa, tra israeliani e palestinesi, che è molto evidente. Occorre che la comunità internazionale, come ha sottolineato anche lui, dia una mano consistente per far sì che le sofferenze che ci sono state, e che portano a questo timore enorme dell’altro, possano trovare una soluzione con provvedimenti, così che non sia così frequente il percorso alle armi».
Quali sono i prossimi passi su questo cammino?
«Sono stati molto importanti dopo il viaggio in Terra Santa e l’Invocazione ai Giardini i due momenti vissuti da Papa Francesco in Curia: quello con l'imam e quello con i responsabili delle Chiese nel Medio Oriente. Lì sono state elaborate alcune strategie che riguardano il diritto dei cristiani in quelle terre ad essere considerati cittadini a pieno titolo degli Stati in cui vivono, con delle tutele indispensabili che siano loro garantite. E allo stesso tempo è fondamentale la collaborazione con i leader delle Chiese cristiane che è un punto nodale per il futuro del Medio Oriente. Se le Chiese cristiane, questa è l’indicazione che vuol dare il papa, sono più unite e collaborano di più tra di loro, hanno anche maggiore autorevolezza – perché l’autorevolezza discende dall’unità – per proporsi presso i leader delle altre religioni, e anche presso i leader degli Stati, per lavorare a situazioni di pace, di giustizia e a prospettive di sviluppo. Infatti, uno dei grandi problemi lì è anche la mancanza di lavoro: per questo c’è un esodo di tanti, a cominciare dai cristiani».