Il Vescovo di tutti
[…] il 4 settembre 1982 si diede notizia dell’elezione di mons. Antonio Bello a vescovo di Molfetta-Giovinazzo-Terlizzi.
Con stile nuovo, fin dal mese di agosto il vescovo aveva preparato un messaggio da inviare alla sua “nuova sposa”, che fu letto in tutte le chiese il 19 settembre. In esso, rivolgendosi direttamente ai cari fratelli delle chiese di Molfetta, Giovinazzo e Terlizzi, scrive: Il Signore mi manda in mezzo a voi perché mi metta a camminare alla Sua sequela, cadenzando il mio passo col vostro, che so agile e spedito.
[…] Sulla via ci aiuteremo a vicenda. Spartiremo il pane e la tenda. Anzi, faremo in modo che la nostra tenda e il nostro pane siano disponibili per quanti, dispersi o sbandati, incontreremo nel viaggio […] Ancora non conosco i vostri volti, però stringo egualmente la mano di tutti, non solo di voi credenti, ma anche di coloro che, pur non condividendo le nostre speranze cristiane, sperimentano come noi la durezza della strada e si impegnano perché la loro vita e quella degli altri sia più degna dell’uomo. Ma non è già questa una speranza cristiana?
In questo primo messaggio sono già presenti le tematiche che faranno da trama al suo episcopato: la sequela Christi, il camminare insieme, l’attenzione ai volti, l’apertura ai dispersi e agli sbandati, il dialogo con chi non è cristiano. Ma più del messaggio colpì il primo gesto del neoeletto: non andò una delegazione a fargli visita a Tricase, ma egli stesso fece visita al clero il 6 settembre. Arrivò con la sua vecchia Fiat 500 e con la sua consueta cordialità si presentò al clero riunito nell’aula magna del seminario vescovile. Disse che avrebbe chiesto l’incardinazione tra il clero della diocesi, per sottolineare il suo essere parte integrante della nuova famiglia diocesana.
Il giovane vescovo si trovò a fare alcune scelte apparentemente marginali: lo stemma, la croce pettorale, il pastorale, l’anello, il guardaroba. Si trattò di scelte oculate, orientate non a fare diventare le insegne episcopali segni del potere, ma a dare potere ai segni.
E così ridusse al minimo essenziale il suo guardaroba. Volle che lo stemma fosse semplice e riprendesse quello del suo paese, Alessano, che aveva sullo scudo la croce accostata da due ali. Come motto scelse «Ascoltino gli umili e si rallegrino», in italiano, perché, diceva, i poveri non conoscono il latino; ciò nonostante, solo per motivi araldici si piegò al più elegante «Audiant et laetentur».
Ancor più potenti furono i segni scelti per il suo ministero episcopale: il pastorale in legno d’ulivo, più simile al vincastro di un pastore che a uno scettro; la croce pettorale semplice nella sua fattura, anch’essa di legno, sostituibile con poca spesa; e infine l’anello, quello della madre.
Questa semplicità fu subito notata dal presidente della Repubblica Sandro Pertini, che il vescovo incontrò al Quirinale per il giuramento di rito, dopo l’ordinazione. In quella circostanza il presidente si meravigliò del segno apposto sul petto del vescovo e ne restò attratto, ma don Tonino non si fece sorprendere e subito gli regalò la sua croce pettorale.
Lo stile che avrebbe contraddistinto il suo episcopato è visibile nelle sue risposte ad alcune domande di Francesco Scarascia nella già citata intervista.
«Anzitutto – chiedeva l’intervistatore – come vuoi essere chiamato, don Tonino o Eccellenza, dal momento che il titolo ti spetta ormai di diritto?». Don Tonino rispose: Il cristianesimo è la religione dei nomi propri, diceva un teologo protestante. Non vedo perché adesso io debba rinunciare al mio nome proprio per assumere un titolo che – a essere sinceri – non ha molto
da spartire né con la povertà di Betlem né con l’ignominia del Calvario. Continuerò a farmi chiamare “don Tonino”, anche se l’essenziale… non sta negli appellativi e neppure nel guardaroba.
[…]
Poi traccia a brevi linee alcune prospettive pastorali: Non è fuori posto interrogarsi, fin da questo momento, per lo meno in termini penitenziali se non programmatici, su come certi valori vengono vissuti dalla nostra chiesa locale. La condivisione dei poveri. […] La preferenza da riservare agli ultimi. […]
L’attenzione ai problemi umani e sociali dei lavoratori, degli operai, dei marittimi, degli artigiani, degli agricoltori, dei disoccupati.
L’ansia di far entrare nella catechesi i temi della pace, della libertà, della giustizia. […] Il bisogno di allargare gli atri della nostra Chiesa, perché essa diventi luogo di comunione e di amicizia per tutta l’umanità. L’esigenza di aprire il dialogo con la cultura contemporanea, senza sceglierci gli interlocutori di comodo e rispettando sempre la distanza che ci separa dal mistero dell’altro. E conclude: Il Signore ci rinnovi e ci faccia essere sentinelle coraggiose del Suo Vangelo.
Domenico Amato, TONINO BELLO, una biografia dell’anima (Città Nuova, 2013)