Il vescovo di Roma ai parlamentari
Sul sito del Vaticano troviamo il testo non tra le “Omelie”, ma nelle “Meditazioni di Santa Marta”, quasi a voler attenuare il senso dell’incontro. Ma la forza della sua parola è stata straordinaria. Una celebrazione intensa, senza saluti, senza abbracci e senza baciamano, a indicare che quando parla il profeta tutto assume il significato di giudizio di Dio, un giudizio per la conversione e per la salvezza, che non può essere banalizzato da comportamenti strumentali e opportunistici.
Il tema è quello tradizionale di tutta la Quaresima: l’infedeltà del popolo e il lamento di Dio che chiama alla conversione. Citando Geremia, cosi il papa dice: «Ma essi non ascoltarono né prestarono orecchio alla mia parola, anzi: procedettero ostinatamente secondo il loro cuore malvagio. Invece di rivolgersi verso di me, mi hanno voltato le spalle».
Questo è avvenuto, nella storia del popolo di Dio, da Abramo fino a Gesù. Avviene come una separazione tra il popolo di Dio che resta solo, smarrito, turbato e tentato, e la sua “classe dirigente – i dottori della legge, i sadducei e i farisei – chiusa nelle sue idee, nella sua pastorale, nella sua ideologia. Un piccolo gruppo di potere che non ascoltava la parola di Dio ma strumentalizzava la sofferenza del popolo e di chi nel popolo pativa le sofferenze maggiori. Questo gruppo di potere, politico e religioso, dimenticava la parola e dimenticava i poveri.
Nessuna tentazione populista da parte del papa, perché il popolo non è una categoria astratta ma ha il volto concreto dei poveri, degli ammalati, delle vedove, dei lebbrosi. E Gesù li sceglie, li guarisce, consegna ad essi la sua parola di autorità che è parola che sana. Afferma e vive una priorità speciale per loro.
Ci ricordiamo l’abbraccio al malato di Sla il giorno della messa di inaugurazione del pontificato, davanti ai potenti del mondo: papa Francesco ha fatto fermare l’auto ed è sceso e ha abbracciato il malato, rendendo visibile al mondo la sua predilezione per i poveri. Dice papa Francesco: «Come vorrei una Chiesa povera e per i poveri!».
Così il papa racconta la parabola di questo piccolo gruppo di potere politico/religioso: «Tutti noi che siamo qui siamo peccatori. Ma questi erano più che peccatori: il cuore di questa gente, di questo gruppetto con il tempo si era indurito tanto, tanto che era impossibile ascoltare la voce del Signore. E da peccatori, sono scivolati, sono diventati corrotti».
Nel cuore del corrotto viene sbriciolato il suo tessuto umano, e così ancora lo descrive papa Francesco: «Ma il corrotto è fissato nelle sue cose, e questi erano corrotti. E per questo si giustificano, perché Gesù, con la sua semplicità, ma con la sua forza di Dio, dava loro fastidio. E, passo dopo passo, finiscono per convincersi che dovevano uccidere Gesù, e uno di loro ha detto: “È meglio che un uomo muoia per il popolo”». E quello è il sommo sacerdote, il capo religioso del popolo. Il papa ci dice che la corruzione degli uomini religiosi uccide Gesù.
Ma il punto più forte di tutta l’omelia si pone in questo passaggio: il gruppetto del potere politico religioso passa da una “teologia della fede” ad una “teologia del dovere”. Ci ricordiamo la questione dei principi non negoziabili e il non possumus del 2007, vere “perle” di questa teologia del dovere. In nome del dovere si cercava di imporre comportamenti che erano patti politici e non l’annuncio pubblico del Vangelo. Alla teologia del dovere, papa Francesco contrappone il grido di Gesù: «E Gesù dice loro questo aggettivo tanto brutto: ipocriti. Tanti pesi opprimenti legati sulle spalle del popolo. E voi? Nemmeno con un dito li toccate. Ipocriti». Dice ancora Francesco che questi teologi della necessità «hanno rifiutato l’amore del Signore, e questo rifiuto ha fatto sì che loro fossero su una strada che non era quella della dialettica della libertà che offriva il Signore, ma quella della logica della necessità, dove non c’è posto per il Signore». Per questo hanno scommesso sulla necessità del potere.
Continua ancora Francesco: «Nella dialettica della libertà c’è il Signore buono, che ci ama, ci ama tanto! Invece nella logica della necessita non c’è posto per Dio: si deve fare, si deve fare, si deve… Sono diventati comportamentali: uomini di buone maniere, ma di cattive abitudini. Gesù li chiama “sepolcri imbiancati”. Questo è il lamento del Signore, il dolore di Dio, il lamento di Dio».
Questa è una parola impegnativa per la Chiesa italiana, per tutte le Chiese locali. Chi ha seguito la teologia del dovere, i “dottori del dovere”, come li chiama il papa, ha inquinato la politica e reso fragile la fede dei poveri e dei piccoli. Per questo Dio si lamenta e si lamenta incessantemente.
Ma ormai è definitivamente terminato il tempo dei “dottori del dovere” che avevano perso la fede e reggevano il popolo con questa teologia pastorale del dovere, consumando patti terribili con gli uomini del potere, con i politici che spesso hanno fatto della corruzione un vero e proprio habitus. Gli uni e gli altri insieme nella dimenticanza dei più piccoli e dei più feriti.
Molti commentatori hanno rimarcato l’assenza di sorrisi e di battute da parte di Francesco. C’è una durezza del profeta: ha mostrato la faccia dura del “servo di Dio”. Questa faccia dura rivela i tradimenti, le inadempienze, le omissioni, le corruzioni di tutti e di ciascuno.
È un appello alla Chiesa a vivere la forma del Santo Vangelo, che si rivela nell’accoglienza e nel riconoscimento dei poveri e dei piccoli. A generare una sapienza della prassi, che trasformi la politica da astuzie luciferine in visione di giustizia e di pace, che intuisce il mondo nuovo, che anche nel nostro Paese sta nascendo.
È un appello ai politici ad essere servi e non padroni: servi dei piccoli, servi della legge, servi della giustizia e del lavoro, servi della pace, a cercare nella Chiesa non il sostegno elettorale, il voto di scambio, ma la sapienza che cambia e rinnova la storia.
Tra un anno e mezzo si terrà a Firenze il convegno della Chiesa italiana. Queste parole rappresentano un viatico per la sua riforma e al tempo stesso indicano ai politici di rispondere alle attese della povera gente e non di inseguire la politica come scambio con i più potenti.