Il vescovo delle favelas
Cent'anni fa nasceva l'arcivescovo brasiliano che ha incarnato l'opzione preferenziale per i poveri.
Camminare su una corda tesa. Da un lato la sicurezza del potere e le comodità della mondanità; dall’altro le spericolate, spesso affascinanti, prospettive d’idee e azioni rivoluzionarie, animate dall’odio: in mezzo, la corda.
Il cristiano o, per usare una parola ardita, il santo, cammina su quella lì, sulla corda. E anche se in certi momenti gli sembra sottile e traballante, di solito si sente a suo agio su di essa, e ci cammina sopra con una certa dimestichezza.
È una questione di fiducia in Dio, di fede. Dom Helder Camara, l’arcivescovo brasiliano di cui ricorre anche il decimo anniversario della morte, camminava sulla corda. «Se do il pane ai poveri, tutti mi chiamano santo; se dimostro perché i poveri non hanno pane, mi chiamano comunista e sovversivo», diceva. E non si curava troppo di quei commenti.
Il Sunday Times lo definì «l’uomo più influente dell’America Latina dopo Fidel Castro»; altri lo battezzarono «il vescovo rosso». Ma lui, l’esile e indomito Dom Helder, non si faceva né blandire né intimorire da alcuna etichetta. Si comportava come un autentico profeta dei tempi biblici: annunciava e denunciava, e non cercava di sottrarsi a questo duplice e inderogabile impegno, appoggiandosi fiducioso solo alla forza della verità.
Per questo la gente brasiliana, e tanti nel mondo, lo amavano e continuano a ricordarlo con grande affetto. Cercava di stare vicino agli ultimi, strenuo difensore del diritto alla vita, e d’una vita dignitosa. Vedeva in Maria, nella Madre di Dio, la misericordia divina che, come un piano inclinato, discende dal Cielo verso la Terra, per toccare i più lontani, i perduti, quelli più indegni di misericordia.
Helder Camara nasce nel nordest brasiliano, a Fortaleza, nel 1909, proprio nella domenica di carnevale, quando la gente impazza di gioia di vivere. Undicesimo di tredici figli, sa cosa significa una famiglia numerosa e conosce la miseria della sua gente. Perde cinque fratelli in tenera età a causa di un’epidemia di difterite. Diventato sacerdote, s’impegna in numerose iniziative a favore dei più deboli: dal sindacato delle donne operaie a varie cooperative. Chi gli sta accanto riconosce il suo acceso carisma, la sua indubbia capacità organizzativa. Diventa vescovo, poi segretario della Conferenza episcopale brasiliana, la prima nel mondo, che lui aveva inventato con il consenso di Paolo VI.
Al Congresso eucaristico del 1955, a Rio, il cardinal Gerlier, legato pontificio, vedendo la sua opera, suggerisce: «Perché non mette il suo talento organizzativo a servizio dei poveri, per risolvere i problemi delle favelas qui a Rio, la città più bella, ma anche la più spaventosa del mondo?».
È come appiccar fuoco a una boscaglia secca: con questo incoraggiamento, Dom Helder comprende ancora più a fondo la sua vocazione d’impegno concreto per i poveri, tenendosi stretto come esempio solo il Cristo. Soprannominato «il vescovo delle favelas», ce la mette tutta per traghettare la Chiesa brasiliana – per tanti versi all’epoca ancora vincolata a schemi coloniali – verso una realtà ben più vicina ai poveri.
Comincia a girare il mondo per portare ovunque la sua passione per gli ultimi: nei suoi appassionati discorsi piange e si commuove, raccontando la miseria incontrata nel Terzo mondo; e grida contro chi ha troppo e non si cura degli altri. La sua teoria e prassi convergono sulla liberazione dell’uomo. Ma non è un agitatore politico, lui. La liberazione, per Camara, consiste solo nel Cristo, non in una rivoluzione di classe.
Una volta, commentando san Paolo in un’omelia, afferma con la solita forza: «La speranza cristiana non ci permette di rimanere inerti aspettando passivamente il momento della restaurazione di tutte le cose, ma esige una presenza indomita ed attiva, capace di provocare nella corrente della storia i segni della resurrezione. Fratelli, la parola di Gesù nel suo discorso escatologico è di una forza incomparabile per noi in quest’ora oscura ma anche carica di promesse. Prendete coraggio e levate il vostro sguardo, perché si avvicina l’ora della vostra liberazione».
Nel 1969, in un grande meeting a Parigi, Camara, senza peli sulla lingua, afferma coraggiosamente: «Nel mio Paese si usa la tortura come tecnica di governo». È una sfida al regime brasiliano, col quale tanti Paesi sviluppati coltivavano ottimi rapporti. Per risposta, i generali al potere lo osteggiano in tutti i modi: il suo nome è cancellato dai mezzi di comunicazione e un’ondata di violenza investe molti suoi collaboratori. Una madre, che in quel periodo ha in carcere il figlio prete, confida con convinzione: «Ci sono momenti in cui il posto dei cristiani è in carcere». È gente così, la gente di Dom Helder.
Camara partecipa al Vaticano II portando la sua carica umana e la sua decennale esperienza nel cercare d’integrare le dimensioni politica e spirituale della fede cristiana. Anche nel soggiorno romano non cambia le sue abitudini: a letto presto; una prima sveglia a mezzanotte: preghiera, lettura, riflessioni, scrivere; poi riaddormentarsi sulla sedia e alle cinque la sveglia definitiva. In quelle notti nascono gli straordinari scritti raccolti nel volume Roma, due del mattino (San Paolo editore). Una vera perla.
Appena viene il momento di lasciare la sua diocesi per raggiunti limiti di età, lo fa prontamente. E continua a vivere fino alla morte nel modesto appartamento popolare di Recife in cui si è trasferito all’inizio del suo ministero episcopale.
Nella sua lunga vita, Camara ha compreso che se si vuole rimanere ottusamente fedeli a sé stessi e alle proprie prime ispirazioni, si rischia d’essere scavalcati dalla realtà: una presunta, ostinata fedeltà può paradossalmente diventare alibi per non crescere. È necessario invece rinnovarsi molto, per restare fedeli a sé stessi. Helder l’ha compreso e ha agito di conseguenza. Cercando cocciutamente di rinnovarsi. Ed è questo uno dei contributi più preziosi che ha lasciato alla Chiesa. La voglia di rinnovarsi, per poter rimanere fedele a sé stessa.