Il vero popolo italiano nel Paese che non c’è
La semplicità della gente o il nichilismo finto di teleromanzi e politicanti?
Se dovessi oggi dare una definizione della nazione italiana ritorcerei al povero e in questo caso ingenuo Manzoni, per il post-Risorgimento, un suo verso pre-Risorgimento: «Un volgo disperso che nome non ha».
È un’evidenza (non lo è solo per chi è accecato da ideologie) che il nostro “Risorgimento”, che andava fatto, è stato fatto nel peggiore dei modi possibili: massonico (=centralistico), anticattolico, antifederale, colonialista (il Sud piemontesizzato e vampirizzato), ecc.
Oggi ne godiamo le conseguenze: la cosa pubblica non è di nessuno e quindi moltissimi la saccheggiano, la trascurano, la vandalizzano; la cultura italiana (arte letteratura musica ecc.), per alcuni aspetti la più ricca e fondante, è irrisa, storpiata, rimossa o ignorata; e, sia detto con la massima vergogna, quasi ogni italiano ha l’aria di un turista smarrito e spesso ma-leducato in un accampamento provvisorio di nomadi-stanziali (come dice la sublime ipocrisia inventata per i nomadi veri, che infatti da noi stanzialmente prosperano).
Io ho la fortuna di abitare in una periferia che è un paesetto trapiantato in città, e del paese ha mantenuto gli aspetti migliori di semplicità e mo-derazione. Questo mi ha reso più facile lo scoprire qual è il vero popolo, al quale mi onoro di appartenere. Basta girare per le stradine, andare al mercato, odorare l’aria: quasi tutti parlano una parola d’italiano (inflesso maternamente secondo le regioni di provenienza) e una di dialetto, sgram-maticano con grande espressività, ridono o piangono sinceramente, con stile isole dei famosi, dicono «Facci» e «Che vuoi?», passando da un incerto “Lei” al “Tu” e ritorno, hanno un’aria di esseri umani che altrove spesso se non manca è contraffatta o sbandata o sgualcita.
Parlano di destra e di sinistra, quando ne parlano (preferiscono la Roma e la Lazio) sempre con accenti ironici o umoristici, oltre che amari, dimostrandosi così ben superiori a quei quattro “intellettuali”, salvo eccezioni, che dalle riviste à la page e dai quotidiani borghesi-snob pontificano assurdità ideologiche o il nulla sul nulla.
Nel mio paese-periferia non ci sono stinchi di santi (qualcuna sì, qualche vecchietta che vedo sempre in chiesa e antepongo a teologi di chiara fama), la gente fa errori e stupidaggini, ma non si sogna di contrabbandarli per genialità, malgrado tutto e malgrado sé stessa non confonde il male con il bene, e perché? perché non è, a differenza di quei quattro “intellettuali”, nichilista. Qui si sente nella voce, nella parolaccia, persino in qualche sciagurata grottesca bestemmia, che la gente non è nichilista, che l’accento viene dal cuore, magari da un cuore modesto e mediocre, ma non finto, non taroccato, non ritoccato da bugie ufficiali e finzioni interiori e carinerie da salotto televisivo, che qui fanno pena e vengono sostituite da magari ignobili, ma apertamente e ingenuamente ignobili, teleromanzi.
Il vero popolo è quello che forse tradisce la moglie e si sbronza al bar – qui più che la par condicio interessa la bar condicio –, ma non rinuncia al presepio e ai doni per i “ragazzini”; e se vi si infiltra qualcuno/a con la puzza al naso, lo/la squadra in un istante e lo/la lascia nel suo brodo. Che si spertica in complimenti per farti comprare al suo banco, ma è anche capace di chiederti come stai, a differenza di altre parti dell’Italia scandinavizzata; che affolla i funerali quasi più che i matrimoni, e che in questi ultimi si veste di abiti a volte orrendi (verde pisello, ruggine, rosa fucsia) e posa in foto da farti accapponare la pelle, e spende una fortuna per tremendi pranzi da mille portate e mille convitati; ma cerca nelle persone il rispetto, non la “tolleranza”, e qualcosa che somigli all’amore, non all’indifferenza delle “scelte”.
Se ho una speranza “civile”, ce l’ho in questo popolo, che non ha voce in capitolo, che non è fatto né di politicanti arruffoni-arraffoni né di su-percommercianti avidi, né di imboscati nullafacenti magari con poltrone, né di delinquenti in doppiopetto, ma di povera o meno povera gente che ha una sua dignità senza teorizzarla e sbandierarla, che non parla o straparla di diritti per nascondere i doveri, ma li conosce, gli uni e gli altri; che forse rivolge qualche pensiero di troppo al divo o alla diva e si martirizza in tacchi troppo alti, ma sa bene che in fondo si tratta di sciocchezze (evito, anche se non vorrei, il preciso termine in uso); e che la vita è una cosa seria, cara, e anche tragica, e perciò anche lei merita rispetto.