Il Veneto limita la libertà di religione?
Nei media è passata come “Legge anti moschee”: così infatti è stato ribattezzato il provvedimento approvato lo scorso 5 aprile dal Consiglio regionale del Veneto, cui relatore è stato il leghista Alessandro Montagnoli. In realtà si tratta di modifiche alla legge regionale 11 del 2014 “Norme per il governo del territorio in materia di paesaggio”, che non nomina mai espressamente i luoghi di culto musulmani, ma pone dei vincoli che non solo vanno a colpire di fatto le comunità musulmane, ma anche le associazioni in senso lato, e presenta dei profili di incostituzionalità simili a una legge regionale lombarda già bocciata dalla Consulta perché discriminatoria.
La legge riguarda gli “edifici di culto”, definizione sotto cui ricadono gli edifici propriamente destinati a tale scopo (chiese, moschee, cappelle votive…), quelli destinati all’abitazione dei ministri del culto e del personale di servizio (preti, frati, suore, imam, presbiteri, diaconi, sacrestani…), quelli per la formazione religiosa e le attività culturali, educative, sociali, ricreative e di ristoro (dagli oratori, alle mense e altri servizi della Caritas, alle scuole cattoliche) e agli immobili sedi di associazioni le cui finalità siano riconducibili alla religione, che è la forma aggregativa più comune nel mondo musulmano, non esistendo una “Chiesa” come nel caso dei cattolici.
La platea dei destinatari è pertanto assai ampia e può arrivare a riguardare anche gruppi come gli scout cattolici, l'Azione Cattolica, oltre alla già citata Caritas. La legge prevede che gli edifici di questo genere possano sorgere soltanto nelle cosiddette “aree F”, quelle destinate a infrastrutture e impianti di interesse pubblico, nella maggior parte dei Comuni collocate in periferia; e che debbano disporre di strade, parcheggi e opere di urbanizzazione adeguate («con oneri a carico dei richiedenti», ossia a loro spesa), previa convenzione stipulata col Comune, che è l'ente preposto a valutare l'adeguatezza delle strutture, con criteri che però il testo delle legge non esplicita e che quindi sono lasciati alle singole amministrazioni.
(Nella foto, una mensa della Caritas)
Inoltre la legge prevede che debba essere usata la lingua italiana per le attività “non strettamente connesse alle pratiche rituali del culto” (in altri termini: l'imam può ancora leggere il Corano o tenere il suo sermone in arabo, o un gruppo di devoti cattolici chiedere la messa in latino, ma per il resto va utilizzato l'italiano); e introduce anche la possibilità di un referendum popolare per le questioni urbanistiche. Ma c'è un ma: dispensati dal rispetto di tali obblighi sono gli edifici già esistenti, eccetto quelli sedi di associazioni. Si “salvano” così chiese, canoniche, conventi e affini, ma non i luoghi di aggregazione delle associazioni – cattoliche o musulmane che siano – e finanche le mense della Caritas.
Contro tale legge si era già levata la voce del patriarca di Venezia Francesco Moraglia, che vi aveva visto un pericolo per la libertà religiosa in senso lato. Non solo tra enti e associazioni, ma anche a livello politico le perplessità sono numerose e la volontà di far impugnare la legge – così come avvenuto per quella lombarda – molto forte. «Le ragioni per cui questa legge è discriminatoria e quindi incostituzionale sono diverse – spiega Cristina Guarda, consigliere regionale del Veneto che si è opposta all'approvazione –. Innanzitutto perché limita la libertà religiosa: non sono solo i musulmani a venire colpiti, ma anche i Testimoni di Geova, diversi gruppi protestanti che formalmente sono associazioni, e molti altri ancora. In secondo luogo perché lascia alla discrezionalità del sindaco il fatto di determinare i criteri di adeguatezza, non solo minandone la certezza, ma anche ponendo un ulteriore elemento discriminatorio: quanti gruppi religiosi o quali associazioni potrebbero sostenere la spesa dell'opera di adeguamento di una strada?».
«Anche l'imposizione dell'italiano – continua Cristina Guarda – va a minare l'attività assistenziale che tante associazioni svolgono verso gli immigrati; e da ultimo, la legge italiana prevede che non si possano indire referendum che riguardano i diritti fondamentali, e il diritto alla libertà religiosa e all'uso della propria lingua sono tra questi. Per questo abbiamo sollecitato i parlamentari veneti, che hanno preparato un'interpellanza al governo – il soggetto preposto all'impugnazione – perché provveda entro il termine di 60 giorni. Sappiamo che anche il ministero dell'Interno ci sta lavorando, ma si è scelto di attendere che siano trascorse le elezioni amministrative per evitare strumentalizzazioni politiche». Il rischio è poi quello che, nel periodo di tempo tra l'eventuale ricorso e la pronuncia della Consulta, si creino delle situazioni “limbo” che rimarranno tali a lungo, dando adito a ricorsi al Tar con relativi strascichi.
Non è comunque solo questione di legittimità costituzionale, ma bisogna valutare le conseguenze ampie che una simile legge potrebbe avere: «Pensiamo ad associazioni come gli scout, come l'Azione Cattolica, o a tutte le attività di formazione svolte da questi o altri soggetti come gli stessi movimenti ecclesiali – continua Guarda –: è evidente che potrebbero essere messe a rischio. Per non parlare della preziosa assistenza che la Caritas ed altri enti danno tramite le mense, o le azioni volte all'accoglienza degli immigrati. La permanenza di queste attività al di fuori delle zone periferiche potrebbe essere contestata, così come l'adeguatezza degli edifici in cui hanno sede. Come possiamo auspicare non solo l'integrazione degli immigrati, ma anche la stessa formazione dei nostri giovani se le releghiamo ai margini delle nostre città?».
I gruppi di opposizione, insieme a numerose altre realtà, si sono mosse per suscitare una maggior consapevolezza nella popolazione e caldeggiare l'impugnazione della norma, e diversi gruppi religiosi hanno chiesto e ottenuto audizione nella commissione consiliare preposta. «Al di là di tutto, è stato bello vedere come queste persone sono state ascoltate – osserva la Guarda – e come si sia creata un'alleanza nel difendere l'uno la fede dell'altro. Lo stesso patriarca Moraglia ha espresso esplicito sostegno ai musulmani».
Dal canto suo, il relatore di maggioranza della legge, il leghista Alessandro Montagnoli, ha promesso il «massimo rispetto» dei princìpi di laicità e libertà di culto, ha assicurato che «gli attentati degli ultimi mesi non c’entrano nulla» e che «qui non si vuole discriminare nessuno, assolutamente»; e ha assicurato che l’intenzione è solo quella di dare ai sindaci («E lo dico da ex sindaco che per tre volte è intervenuto sull’argomento, per tre volte è stato trascinato al Tar e per tre volte ha vinto») uno strumento di natura urbanistica utile a regolamentare «la proliferazione dei luoghi di culto», conciliando libertà religiosa e garanzie per la comunità sotto il profilo della sicurezza delle infrastrutture.
Più drastica è stata invece l'assessore regionale all'Istruzione Elena Donazzan: «Noi abbiamo il dovere di governare questo tempo, che ci richiama a emergenze legate all’islam. Questo è un dibattito ideologico, giustamente ideologico, lo rivendico – ha detto –. Parigi e Bruxelles ci dimostrano cosa accade quando non si regolamentano i momenti di preghiera che sono, per i musulmani, anche momenti di aggregazione. Vogliamo aspettare che accada ciò che è accaduto in quelle città? Lo sapete che proprio da un centro di preghiera del piccolo Comune di Ponte nella Alpi, nel Bellunese, sono stati reclutati dei combattenti partiti per la jihad?». Anche all'interno della stessa maggioranza dunque – per l'occasione allargata ai tosiani – visioni più e meno “radicali” convivono.