Il Veneto in mostra

Tre capolavori da ammirare e contemplare nell’itinerario belliniano che la città di Vicenza offre al visitatore, così come l’esposizione nel Museo Civico sulla Grande guerra; mentre Rovigo ospita la rassegna sui Nabis, Gauguin e la pittura italiana d’avanguardia
La "Trasfigurazione" di Giovanni Bellini

Vicenza, vista dall’alto del Monte Berico, è una meraviglia di tetti rossi, il campanile svettante del duomo, la candida Basilicadel Palladio. Aristocratica e gentile eleganza tra acque e monti, dove il centro storico è pulito e amato, la città offre i suoi tesori.

 

Giovanni Bellini, a 500 anni dalla morte, è luminosamente presente nella chiesa di Santa Corona, in un Battesimo di Cristo ove si contempla una delle prime aurore della storia dell’arte moderna, che aprirà la strada a Giorgione e alla pittura di paesaggio. Ma in quest’anno la città ha fatto di più. Nel vicino Palazzo Leoni Montanari – che raccoglie le collezioni settecentesche (uno sconvolgente Giudizio universale del Tiepolo) e le icone russe – è arrivata in prestito da Napoli, dal museo di Capodimonte, la Trasfigurazione belliniana, allestita in una piccola sala (fino all’11/12).

 

Si entra in pochi e ci si ferma di fronte alla tavola ove il Cristo bianco sta davanti a noi, immerso in uno dei più belli autunni veneti. Pochi forse si ricorderanno che Zeffirelli lo ha ripreso per la scena simile nel suo film Gesù di Nazaret. Il lavoro è un “ospite illustre”, che dopo secoli ritorna alla città da cui era partito, quando ancora si trovava nel duomo cittadino.

 

Non basta. A Palazzo Chiericati, poco lontano, è giunto dalle collezioni Thiene il Crocifisso belliniano. Alto contro il cielo azzurro, il Cristo guarda al paesaggio sterminato di teschi e di lapidi ebree con un chiaro significato: la sua redenzione avvolge anche questo popolo. Bellini nel paesaggio cita il duomo vicentino: un ricordo dal vivo, per un pittore che non amava viaggiare, ma qui c’è stato per davvero.

 

Questi tre capolavori di cui abbiamo parlato fanno parte dell’itinerario belliniano che la città offre al visitatore che si dimentichi, almeno per un istante, di scattare soltanto foto. Qui infatti c’è da contemplare, e molto.

 

Il Museo Civico, infatti, che ha sede nel palazzo Chiericati, è stato allargato a ben 1933 metri quadri espositivi ed ora si possono ammirare le opere dal romanico al barocco, oltre allo spazio meraviglioso dove è stata “ricostruita” l’antica chiesa di san Bartolomeo con i suoi altari: lavori di Cima, Montagna, Buonconsiglio, ossia di grandi maestri veneti del Rinascimento. Una gioia per lo spirito.

 

Gioia che si trasforma in riflessione scendendo negli spazio sotterranei alla mostra “Ferro Fuoco Sangue! Vivere la Grande Guerra” (fino al 26/2). Qui intorno sulle Prealpi si sono combattuti ferocemente gli assalti reciproci tra il 1914 e il ’18: diventa necessario anzi obbligatorio ricordarli, perché purtroppo queste “inutili stragi” continuano tuttora.

Passato e presente dunque sono alleati nel dare un volto parlante a un gioiello architettonico e visivo come è appunto ancor oggi Vicenza. Assolutamente da vedere.

 

 

Rovigo è città della bassa veneta, isolata nella pianura, vicina al Po e all’Adriatico, semplice e riservata. Ma annuncia sorprese espositive ormai annuali.

Questa volta sono I Nabis, Gauguin e la pittura italiana d’avanguardia, presenti con cento opere a Palazzo Roverella fino al 14 gennaio (catalogo Marsilio). Cosa ha di originale questa rassegna, un unicum nelle attuali esposizioni italiane? Semplicemente un fatto: il grande pubblico ignora questa corrente d’arte che ha precorso il ’900, questi giovani fuggiti dall’asfissia delle città per andare a dipingere la natura lungo la laguna veneziana o sulle coste della Bretagna. L’ansia di ritrovare la semplicità e l’innocenza dell’ispirazione, la voglia di andare controcorrente ha mosso, dopo Gauguin che ne è l’ispiratore, Sérusier e Bernard, Denis e Vallotton, per arrivare poi ai nostri Casorati, Ghiglia e Cavaglieri.

 

Non sono neo-impressionisti, non sono nemmeno accademici. Sono puri, come i giovani autentici cercano l’essenza della natura, la sua voce. Perciò stilizzano cose e persone, fissano emozioni colorate, vibrano di una realtà atemporale. Sono liberi da forme precostituite, per cui saranno di volta in volta simbolisti, idealisti, cubisti, naturalisti, a seconda di quella “bellezza vivente” che cercano dentro di sé e che ritrovano espressa come fossero dei profeti (Nabis in ebraico significa appunto questo) in una natura e in una umanità continuamente nuova, desiderosa di stupire l’uomo.

Alcuni esempi. La visione dopo il sermone di Gauguin (1888) dove le donne bretoni “vedono” la lotta di Giacobbe con l’angelo tra distese di bianco e rosso; le Donne bretoni sulla spiaggia di Bernard (188) dai colori “infantili”; il Mattino di Pasqua di Denis (1892) è fresco come la primavera tra alberi in fiore.

 

Da noi, Gino Rossi regala nel 1912 un Paesaggio di Burano a larghe tinte di mare e di verde, nel ’13 la musica della Piccola descrizione asolana, di colli e terre; Oscar Ghiglia penetra in un interno con la Donna che si pettina (1909) a larghe falde pennellate e piene di luce; Felice Casorati nel ’34 dipinge La convalescente, triste e seduta, fra tinte larghe e smorte.

Ognuno di questi artisti non imita nessuno, è sé stesso. Tutti posseggono tuttavia una impronta, che ne dice la direzione: la volontà di non guardare a scuole o stili, ma di trasmettere quello che il sentimento gli dice, muoversi a dipingere il “vero”, non come realismo, ma come ricerca dell’anima, nella natura, nelle cose, nelle persone. Non è davvero poco.

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