Il vangelo secondo Pippo Delbono

Un’opera nata come risposta dell’artista all’invito della madre che, in punto di morte, gli ha chiesto di fare uno spettacolo sul Vangelo, “così dai un messaggio d’amore”
del bono

Più che in altri spettacoli, c’è qualcosa di sincero, di vero, nell’ultima opera di Pippo Delbono. Anzitutto perché nasce come “atto d’amore” dell’artista nei confronti della madre che, in punto di morte, gli ha chiesto di fare «… uno spettacolo sul Vangelo. Così dai un messaggio d’amore. C’è n’è così tanto bisogno di questi tempi».

E lui, non credente, oggi buddista, da sempre col rifiuto della religione cattolica, si è accostato alla materia religiosa facendone una ulteriore indagine autobiografica inserita nel più ampio orizzonte del dolore del mondo. Se lo si guarda come una tappa della sua ricerca esistenziale, “Vangelo”, al di là del discutibile risultato artistico – che, esteticamente e drammaturgicamente, può non convincere anche per l’eccessiva autoreferenzialità -, ci appare come un ulteriore affondo nell’interiorità di Delbono, un nuovo tassello del travaglio umano di una persona che non ha mai smesso di mostrarsi per quello che è. E di farlo, e di dirlo, col teatro.

Ad aneddoti, a pensieri, riflessioni ed esperienze della sua adolescenza, dei suoi anni turbolenti, dei suoi incontri importanti – e cita sempre quello con Bobò, il microcefalo sordomuto dell’ospedale di Aversa, oggi ottantenne, di cui si è preso cura prendendolo con sé e presente nei suoi spettacoli -, unisce brani del Vangelo che lo hanno maggiormente colpito per la carica rivoluzionaria che posseggono, e suggestioni poetiche – tra cui frasi di Pasolini e di sant’Agostino -, leggendoli a voce alta mentre attraversa la platea, stando seduto o salendo sul palcoscenico. Il suo procedere compositivo è “alla Pina Bausch”, ovvero per quadri, con passerelle dei performer in abiti eleganti, quotidiani, o dalle fogge pittoriche – ad esempio una sfilata di uomini incappucciati e in porpora, sorta di tribunale che giudicherà  un Cristo impersonato dall’ex clochard Nelson- che danno forma a schegge di storie che attraversano il mondo contemporaneo per parlare del buio dei nostri tempi ma con squarci di luce.

Sono immagini e sequenze che irrompono in balli, in musiche, in dichiarazioni al microfono, in testimonianze dirette – come quella di un rifugiato afgano che racconta la sua odissea in mare -, in figurazioni plastiche, accompagnati da gesti inconsulti e altri di compassione. E sono tante i riferimenti ai ricordi personali di Delbono – un bisogno di esorcizzare rabbia, sofferenze, lutti, malattie -, che sfumano nella denuncia di ingiustizie del nostro tempo raccolte in incontri con persone contrassegnate dalla sofferenza. Ricorre una sequenza emblematica: sulla grande parete grigia, che funge anche da schermo per proiezioni e che copre tutto il palcoscenico, si alternano delle crocifissioni di “poveri Cristi”, espressioni di un’umanità derelitta.

Un’immagine che riguarda l’esperienza diretta di Delbono costretto in un letto di ospedale per una malattia agli occhi a guardare per dieci giorni un crocifisso appeso a un muro bianco. «Vedevo doppio e cercavo di mettere a fuoco quell’immagine davanti a me», racconta nello spettacolo.«Vagavo per i corridoi dell’ospedale, cercando di raccontare –ancora una volta con la mia camera – quel mio disperato e grottesco vedere doppio. Come vedo doppio, disperato e grottesco questo tempo che attraversiamo, dove non riconosci più il vero dal falso, il reale dall’irreale, dove l’esasperazione del moderno ci ha fatto dimenticare qualcosa di sacro, di antico.

E alla fine mi sono rimaste dentro quelle immagini, quelle voci, quei suoni, quegli echi, quei silenzi sentiti in quei campi di zingari e di profughi, in quelle corsie d’ospedale, ma anche quella forza vitale, quella inspiegabile gioia trovata nei luoghi deputati al dolore».

Delbono suggella lo spettacolo mettendo al centro della scena una grande culla con dentro il giovane down Gianluca, e a fianco un cavallo a dondolo. E intanto legge la parabola del granello di senape caduto in terra e le parole di Gesù “Se non diventerete come bambini non entrerete nel regno dei Cieli”. «Anche questo spettacolo – chiude – è dedicato a mia madre».

Al Teatro Argentina di Roma, fino al 31/1; e a Modena, Teatro Storchi, dal 4 al 7/2. “Vangelo”, immagini e film di Pippo Delbono, musiche originali per orchestra e coro polifonico Enzo Avitabile, scene Claude Santerre, costumi Antonella Cannarozzi, disegno luci Fabio Sajiz. Produzione Emilia Romagna Teatro Fondazione e Teatro Nazionale Croato di Zagabria. Co-produzione Théâtre Vidy Lausanne, Maison de la Culture d'Amiens – Centre de Création et de Production Theatre de Liège in collaborazione con Cinémathèque suisse- Lausanne, Teatro Comunale di Bologna.

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