Il vangelo e la linea rossa
La linea rossa diventa il criterio della politica. Le linee rosse sono necessarie, ma parziali e pronte a rovesciarsi nel loro contrario. Sono prigioniere della giustificazione della guerra e della sua ideologia. Se guardiamo a quanto è accaduto solamente negli ultimi dieci non c'è azione di forza o più semplicemente di guerra che abbia prodotto frutti positivi, dall’Afghanistan, all’Irak, al Kossovo (checché ne pensi qualche leader politico nostrano) alle due guerre di Gaza e alla Libia.
Unica eccezione, la guerra in Libano del 2006, ma quella è davvero tutta un’altra storia, come abbiamo cercato già di dire: è stato un intervento di interposizione che ha impedito alla guerra di espandersi e che ha permesso di riconciliare il paese. L’italia, che ne ha avuto la responsabilità, ha mostrato che si possono superare le linee rosse.
Qualcuno distingue tra etica della convinzione, che appartiene ai testimoni, e l’etica della responsabilità, che appartiene ai politici. La prima esprimerebbe i valori e la seconda le soluzioni, in una divisione singolare di competenze.
Nel 1956, dopo i fatti di Ungheria con l’invasione ad opera della Unione Sovietica, nel consiglio comunale di Bologna si apre una drammatica discussione. Gli amministratori comunisti di Bologna sostengono: «l’intervento della Unione sovietica si presenta non come un atto che porta plauso, ma come un atto doloroso, necessario… si presenta come un atto che serve a mantenere delle condizioni di equilibrio nella lotta alla pace e serve all’intera umanità». Parole che riecheggiano quelle che sentiamo oggi da ben altro versante.
Giuseppe Dossetti, allora consigliere comunale a Bologna, cosi replica in un suo straordinario intervento: «Il discorso si stringe precisamente a questo punto: se questa possa essere una posizione morale .Ora è chiaro che per me non lo è. Disboscata la selva di tutte le interpretazioni e giustificazioni di ordine ideologico, nelle quali io completamente mi smarrisco, io ci trovo soltanto il volto gelido e mortale della ragion di Stato. Un certo tipo di ragion di Stato, se volete la ragion di Stato dello Stato che si dice che per primo ha attuato nel mondo il socialismo… Io non accetto nessuna ragion di Stato: non accetto la ragion di Stato, dello Stato classista che deve attuare il socialismo nel mondo. Io non accetto nessuna ragion di Stato perché per me non si può fare il male perchè venga il bene. Non si può spargere una sola goccia di sangue, neppure per salvare il socialismo».
Oggi si potrebbe dire che non si può spargere una sola goccia di sangue per salvare una dottrina, un principio, una organizzazione internazionale, la leadership mondiale di un grande Paese, i molteplici volti della ragion di Stato, che fanno della guerra lo strumento primo ed estremo della loro politica, al punto che la guerra diventa politica e la politica declina la guerra. Così si coprono i fallimenti dei politici, la loro ritrosia ad azioni di lungo periodo che prevengano le guerre e i conflitti, e la cecità, che impedisce loro di riconoscere il sangue versato.
Non si può spargere una goccia di sangue innocente a nessun titolo. Va detto ora e va detto sempre. Non c’è separazione tra etica delle convinzioni ed etica della responsabilità, ma anzi solo una grande etica delle convinzioni genera e alimenta una politica di scelte responsabili e di grande visione. Quando diciamo che la guerra produce la guerra, dichiariamo il fallimento di chi pensa a due etiche: una delle anime belle o delle persone spirituali, l’altra dei politici e dei generali (questi ultimi sempre più restii alla guerra).
Giuseppe Dossetti, davanti al sindaco di Bologna, cosi conclude con parole che stupiscono e rinviano al cuore della sua fede: «voi avete le vostre armi, noi abbiamo le nostre e io credo alle armi di cui un cristiano può valersi infinitamente di più di quello che io non creda ai carri armati e agli aeroplani a reazione (ndr, oggi si direbbe missili e droni) da qualsiasi parte, anzi direi che non ci credo per niente a questi, che … depreco con tutta l’anima mia dovunque essi si trovino. Le nostre armi sono armi che possano talvolta far sorridere, ma sono armi che per me sono potentissime: … Credo alla preghiera, credo agli angeli, redo all’intervento della Madonna, credo ai santi… credo soprattutto,al di la delle nostre povere parole umane, alla parola di Dio… Io credo che sia mio dovere, in questo consiglio comunale, in questa città che ha visto il più grande trionfo del comunismo in Italia, opporre a quello che appare un tragico errore… la estrema infantile debolezza (apparente) della parola di Dio…».
Questo testo del 1956, cosi vicino alle parole pronunciate da papa Francesco, ci dice che è venuto il tempo di superare la distinzione delle due etiche e riscoprire il realismo del vangelo, che non ci pone al di fuori della storia, ma ci immerge nelle sue contraddizioni più profonde e le cambia con la forza disarmata della parola del vangelo.
A questo si contrappone il realismo della politica, dell’uso della forza e della necessità della guerra come estrema ratio, della guerra umanitaria, parole che sentiamo dal presidente americano e che aveva già detto quando accolse il premio Nobel… Un realismo di superficie che rischia di seminare odio per un tempo infinito nel Mediterraneo e nel Medio Oriente.
Andare alla preghiera e al digiuno è non un atto di devozione, ma un gesto di conversione, che chiama innanzi tutto i cristiani a vivere il vangelo della pace e nient’altro, a farne la lampada di Dio dentro i conflitti nei quali siamo immersi. Solo cosi si uscirà dalla notte della guerra non per la forza delle armi, ma per la potenza del perdono e della riconciliazione.
Il vangelo va oltre la linea rossa e ispira diplomazia e cooperazione, attenzione alle vittime e saggezza nel dialogo, ostinazione nel trovare soluzioni, ma anche verità nelle responsabilità. Già duecentomila uccisi domandano verità. In questo il vangelo non fa sconti a nessuno.
Speriamo che a San Pietroburgo qualcuno ricordi queste parole e che sabato il seme della pace sia gettato in abbondanza.