Il Vangelo dei migranti
La storia della Libia non è meno antica di quella dell’Italia. Qui, sulla Piazza Verde, as-Sahah al- Khadrah, si può rileggere la vicenda di Tripoli degli ultimi secoli nei suoi monumenti: quella più antica, del XVI secolo, che si ritrova nel Castello Rosso; quella del XVII secolo, presente nelle mura che proteggono la Medina; quella coloniale, negli edifici delle vie principali costruiti dagli italiani; e quella contemporanea, in alcuni recenti palazzi vetrati verso il mare. La piazza è uno specchio delle vicende secolari della Libia, in particolare del colonialismo italiano, terminato con la fine della guerra e con l’inattesa rivoluzione. Da allora nulla può essere detto della Libia se non si prende in conto questo fattore colonialismo. Sulle due colonne poste dinanzi al Museo della Jamahiriya, all’epoca svettavano la lupa di Roma e il leone di Venezia, ora sostituiti dalla caravella, simbolo della città di Tripoli, e da un guerriero islamico con la scimitarra sguainata. I giorni del Signore Nel venerdì qui si festeggia la domenica. O meglio, tra il venerdì e la domenica, con messe celebrate in otto lingue diverse. La comunità cristiana in Libia è privilegiata nell’aver l’obbligo di spostare il giorno del Signore al venerdì, memoria della crocifissione, mi confessa don Daniel Farrugia, maltese, vicario episcopale. Ed è una vera sorpresa quella che provo a San Francesco. Raramente in una Chiesa locale si potrebbe capire meglio il senso della cattolicità della Chiesa, la sua universalità. Il solo luogo di culto cattolico a Tripoli è una costruzione degli anni Trenta, con una facciata a tre archi e un tozzo campanile. Tutta bianca, è ingentilita da qualche tocco di azzurro.Ma i colori forti li mostra all’interno, quando si popola di gente di tutte le razze per le celebrazioni che risuonano dei canti tipici di questa o quella tradizione. C’è un fervore sconosciuto da noi, un calore che si trasmette nelle note o nello scambio della pace, nell’assistenza reciproca o nelle sigarette fumate assieme al termine della messa, nelle lezioni di catechismo che occupano ogni anfratto disponibile, nel centro sociale… Vengo introdotto nel piccolo Centro sociale dal vescovo stesso, mons. Giovanni Martinelli. Mi fa conoscere una famiglia eritrea, fuggita dal proprio Paese in tre settimane di viaggio in un container attraverso il deserto. Le cinque donne di tre generazioni diverse dai volti delicati, quasi perfetti, sopravvivono ora presso altri eritrei immigrati clandestini, senza lavoro fisso, senza documenti, senza assistenza sanitaria, senza casa, senza e basta. Al Centro sociale – in cui lavorano soprattutto delle suore appartenenti alle diverse congregazioni che vivono a Tripoli – le accolgono, chiedono di cosa abbiano bisogno e poi le indirizzano alla clinica, cioè ad alcune stanze al piano superiore dei locali parrocchiali in cui, all’ombra di statue di gesso di santi e madonne, medici e infermieri di diverse nazionalità (filippini, siriani, iracheni…) prestano volontariamente servizio per quegli immigrati più sfortunati di loro, fornendo le cure necessarie per i casi più semplici e indirizzando ai servizi pubblici per i casi più complessi. Norma ha la quarantina fresca d’una ragazzina. Ottimista, con un figlio che frequenta il liceo. Non è molto difficile la nostra vita qui in Libia – esordisce -, perché possiamo praticare la nostra fede e svolgere un lavoro retribuito correttamente. Io sono infermiera in un ospedale per malati mentali. Ho lavorato prima in Arabia Saudita, dove la situazione è molto più difficile perché, anche se ti pagano un po’ meglio, non hai la libertà né di praticare la tua religione, né di svolgere qualsiasi opera sociale. Qui è diverso. I libici sono persone gentili che hanno una fede profonda. Sono riconoscenti per il lavoro che faccio senza guardare in faccia se uno è bianco o nero, musulmano o cristiano o ateo, se è ricco o povero. Tutti i pazienti li seguo con la stessa passione e dedizione. Spesso mi dicono che sono una vera musulmana, perché sono timorata di Dio, e mi invitano nelle loro case per i grandi momenti della loro vita. Il vescovo mite e forte Le moschee in Libia sono belle a vedersi. La cattedrale cattolica del Sacro Cuore è diventata pur essa una moschea e di gran gusto dopo gli aggiustamenti recenti, i portici e gli spazi nuovi creati attorno ad essa. Se qualcuno protesta dicendo che è un luogo cristiano strappatoci dai musulmani, rispondo che l’alternativa è che rimanga abbandonata. È comunque un luogo di Dio, dove la gente prega. Comincia così l’intervista con mons. Giovanni Martinelli, vescovo di Tripoli, un figlio della colonizzazione nato com’è nel 1943 a Tarhuna. Sono qui in Libia per un vero scherzo della Provvidenza – mi dice -; dopo la rivoluzione del 1969 un decreto governativo statuiva che i nativi locali di origine italiana non potevano più risiedere in Libia. Tutte le proprietà della Chiesa erano state espropriate e di quaranta frati solo sei erano rimasti. Dopo un anno mi fu concesso il visto per la Libia: vidi nel buon esito di questa pratica burocratica un segno della Provvidenza: il mio futuro era in Libia, la mia terra. Andai a Bengasi. Il clima nel frattempo si era rasserenato, anche grazie al primo Congresso islamo-cristiano promosso da Gheddafi nel 1976, con la partecipazione di una delegazione vaticana capeggiata dal card. Pignedoli. Ci fu qualche incidente diplomatico, ma il messaggio giunse chiaro: la Libia non è nemica del cristianesimo, ma del colonialismo. Come segno di questo nuovo corso, si era già giunti nel 1971 all’accordo per aprire una chiesa a Tripoli, proprio questa di San Francesco. I rapporti tra Vaticano e Libia sono continuati negli anni con colloqui, visite e discussioni, in particolare su problemi quali l’immigrazione sub-sahariana. L’accelerazione definitiva – mi spiega mons. Martinelli – c’è stata nel 1997, quando furono allacciate normali relazioni diplomatiche tra Vaticano e Libia, nonostante si fosse sotto embargo. Avevamo bisogno di guadagnarci un’identità civica, per non essere considerati come una pura appendice dell’Italia o, peggio, un residuo di colonialismo. Certo, i primi passi delle trattative erano stati difficili, ma nel 1996 Giovanni Paolo II venne in visita a Tunisi, ed ebbi modo di pranzare con lui. Mi chiese che cosa pensassi sui rapporti tra la Chiesa cattolica e la Libia. Gli risposi chiaramente: Bisogna stringere delle relazioni diplomatiche per dare un’identità alla nostra comunità. Il papa capì, e poche settimane dopo le trattative furono riaperte. Quando l’anno seguente l’accordo fu firmato, fummo ricevuti assieme al nunzio apostolico, che risiede a Malta, dal leader Gheddafi, sotto una tenda, nel deserto, alle dieci di sera. Ero felice: io, figlio del colonialismo, avvertivo che la Chiesa si era finalmente liberata dal fardello del pregiudizio. La Chiesa è universale, non è italiana. Vicinanza Mons.Martinelli è uomo di vicinanza, di carità, di piccoli passi. Non perde occasione per far sentire ai musulmani la sua amicizia sincera: visitare un ammalato, preoccuparsi per gli studi di un altro, prendere come segretario uno di loro… Sono riuscito così ad avere la libertà di movimento per tutti noi sacerdoti. Nel Fezzan, ad esempio, in pieno deserto c’era un prete-medico padovano, don Vanni, spesso costretto all’immobilità. Ho chiesto all’autorità competente di mettere per iscritto la libertà che ci era stata concessa. Detto fatto. Ora don Vanni, ovunque vada, col suo prezioso documento non incontra più ostacoli nel lavoro umanitario e spirituale lungo le piste degli immigrati. Gli immigrati, appunto, un capitolo a parte, anzi centrale per la Chiesa libica: Siamo in realtà un po’ dappertutto, noi cattolici: ci sono le infermiere che lavorano negli ospedali, i tecnici impiegati di aziende petrolifere, gli insegnanti d’inglese nelle scuole, una presenza discreta, al servizio della popolazione. È questa in effetti una nota caratteristica e indispensabile della nostra presenza: essere utili, come don Vanni che è prete ma anche medico. Siamo circa 20 mila fedeli cattolici regolari, ma la cifra può essere moltiplicata per quattro o cinque volte se consideriamo gli africani irregolari. E poi ci sono i copti-cattolici e i copti- ortodossi, gli anglicani, i pentecostali. Cresciamo ogni giorno, tanto più che la Libia è un Paese tollerante. Anni fa ci sono stati dei momenti di tensione per l’invasione africana, ma ora le cose sono tornate abbastanza calme, e i Paesi confinanti cercano di fermare l’emorragia. Ora si pensa ad una sanatoria generalizzata. Non va dimenticato che tanti africani non hanno nemmeno la coscienza di dover regolarizzare la loro posizione. Ma debbono in qualche modo vivere, e così crescono la malavita, la droga, la prostituzione, il traffico di moneta falsa e le mafie di tutti i tipi e di tutti i luoghi. Passa poi a raccontarmi dell’ultima sorpresa natalizia, l’incontro con il leader Moammar Gheddafi, da 37 anni al potere, che voleva festeggiare Natale e Festa del sacrificio, nel 2006 sovrapposti, assieme ai leader religiosi cristiani e musulmani. Mi è stato chiesto di parlare in pubblico a nome di tutti – precisa mons. Martinelli -, nella grande tenda di cemento dove il leader di solito incontra gli ospiti di riguardo. Mi ha colpito soprattutto il suo messaggio finale: Noi musulmani e voi cristiani abbiamo libri sacri che dobbiamo mettere in pratica. Se lo facessimo, in poco tempo il mondo ritroverebbe la pace. Poi ha commentato niente meno che le beatitudini evangeliche, in particolare quella dei puri di cuore perché vedranno Dio. Ha spiegato: Voi europei non lo riuscite più a vedere perché siete troppo materialisti. Ma anche noi musulmani abbiamo dei problemi, e non sempre lo vediamo. A questo punto dell’intervista non posso non chiedere a mons. Martinelli come reagisca contro coloro che accusano certe porzioni di Chiesa cattolica nel Nord-Africa di non evangelizzare, di non battezzare, di avere paura delle reazioni delle autorità e dei radicali islamici. Mons. Martinelli sorride, poi risponde: Per me l’annuncio del Vangelo non va fatto in primo luogo con la parola ma con la testimonianza, col servizio. Questo vale in Libia come in Italia o in Cina, sia ben chiaro. La nostra struttura ecclesiale è povera (quindici preti in tutta la Libia), ma va capito che la Chiesa è questa massa di decine di migliaia di cristiani presenti in tutti i campi della società che cerca di rendere ragione della propria fede con un linguaggio di amicizia, aiutando i libici a liberarsi dal pregiudizio che hanno nei confronti dei cristiani quando dicono: Voi ci sfruttate. La conversione non è un atto formale, ma è quell’azione spesso muta che spinge la persona a credere nell’amore. Non abbiamo scuole e ospedali, non abbiamo oratori cattolici, ma abbiamo dei luoghi pubblici dove possiamo occuparci di tutti, sempre, comunque, per primi. E i libici sono sensibili, provati dalla sofferenza e dalle penurie, capaci di rispondere a quest’amore. Beninteso, non si deve fare teatro: bisogna dire tutto il cristianesimo, senza paura, senza cercare accordi al ribasso o compromessi dottrinali inaccettabili, per non creare malintesi alla lunga perniciosi. Il dialogo vero e possibile è quello della vita. La ri-dedicazione Ecumenismo grazie ai musulmani. Così viene voglia di titolare la notizia dell’avvenimento – piccolo- grande evento -, che il 9 marzo si svolge a Tripoli, nella sua parte più intima, quella Medina che da sempre è cuore e cervello della città. Trascurata negli ultimi decenni, ora sta rifacendosi il trucco. La chiesa di Santa Maria degli Angeli, un tempo cattedrale cattolica, viene restituita al culto cristiano in un Paese – per costituzione – al 100 per cento musulmano. Il miracolo è possibile proprio grazie a loro. Santa Maria degli Angeli in realtà non torna ai cattolici, ma agli anglicani, da tempo alla ricerca a Tripoli di un luogo di culto adeguato. Non trovandolo, si sono rivolti a mons. Martinelli, il quale ha avuto l’intuizione di proporre loro di chiedere proprio questa chiesa alle autorità governative. La trattativa si trascinò senza costrutto, finché intervenne una potente istituzione di propaganda islamica, la World Islamic Call Society. È stato così ottenuto l’uso della chiesa, che poi l’istituzione islamica ha girato agli anglicani. Unica condizione posta dal vescovo cattolico: che la chiesa continuasse ad essere dedicata a Maria e che fosse concessa in uso ai cattolici una volta al mese. Il vescovo anglicano d’Egitto, John Mouneer, estende la sua diocesi anche alla Libia e a tutto il Nord Africa. È lui che oggi ri-dedica o riconsacra la chiesa. Nell’improvvisata sacrestia conversa col suo omologo cattolico: Oggi è importante dialogare tra cristiani e musulmani – mi dice -, ma non solo e non tanto attorno a un tavolo. L’esempio di questa sera dice che è possibile trasformare le parole in atti. Questo è un vero dialogo della vita, reso possibile dal responsabile dei servizi segreti, dalle nostre Chiese e dalla World Islamic Call Society. Mentre ancora si stavano dando gli ultimi colpi di pennello, è entrato nella chiesa un gruppo di musulmani, dei vicini di casa, felici che il luogo di culto riaprisse, perché è dedicato alla Vergine Maria, hanno detto. Indubbiamente la chiesa fa la sua bella figura, coi fregi dorati ripassati di fresco e il marmo bianco del pavimento tirato a lucido. È gremita in ogni ordine di posti.Mi dice l’inviato della World Islamic Call Society, mentre il vescovo Mouneer ringrazia dal pulpito tutti, dal leader Gheddafi all’ultimo sacrestano: Questa è la politica della libertà e del rispetto. E aggiunge una suorina di Madre Teresa di Calcutta: Questa è la politica della testimonianza e non della proclamazione, del silenzio prima ancora che della parola. In tempi difficili per il dialogo islamo-cristiano, in momenti in cui da parte cristiana si invoca una reale reciprocità nella libertà di culto, ecco che la riapertura di questa chiesa nella Medina di Tripoli assume un significato non secondario. È il frutto di un paziente dialogo intessuto senza accampare pretese, senza invocare rigide reciprocità, ma solo evidenziando i bisogni e mostrandosi servitori della gente. È un dialogo con un futuro certo nelle terre di diaspora del cristianesimo.