Il troppo rumore di Sepe, per nulla

La commedia di Shakespeare ambientata in un campo gitano a Messina risulta alquanto ingarbugliata. Uno spettacolo volubile, giocato fra troppa ironia e autorappresentazione, con scelte non felici nel taglio delle scene più amene di questo classico del teatro
Una scena di Molto rumore per nulla di Sepe

Su queste pagine avevamo salutato con entusiasmo il suo originale e bellissimo Amletò, che dobbiamo subito riferire di un altro spettacolo di Giancarlo Sepealquanto deludente: Molto rumore per nulla. Sarà per l’instancabile iperattività creativa che lo porta negli ultimi due anni a sfornare spettacoli a getto continuo; o, forse, per la forzata operazione commerciale che gli fa affrontare alcune opere sbrigativamente, senza la preoccupazione di approfondire una chiave di lettura precisa; fatto sta che il regista Sepe con l’attuale messinscena della commedia di Shakespeare (che ha debuttato in estate al Teatro Romano di Verona e al festival La Versiliana, con Francesca Inaudi e Daniele Liotti ora sostituito da Giovanni Scifoni) pur avendo alla base un’idea felice – ambientare la vicenda delle due coppie di innamorati in un accampamento gitano -,risulta alquanto ingarbugliata e caotica per la mescolanza di lingue, di generi, di direzioni diverse che s’intrecciano e che non arrivano a prendere un’unica strada.

Gli attori, dai costumi chiassosi, si esprimono alternando al parlare nobile cadenze dialettali quali il napoletano, il siciliano, il bolognese, il romanesco, il veneto e qualche altro, passando dall’uno all’altra inflessione senza capire per quale motivo. Arrivano con le valigie in mano sbucando da un tendaggio – come le apparizioni dei Sei personaggi pirandelliani? – per installarsi in quel che sembra un palcoscenico diroccato con un ingresso recante l’insegna divelta della scritta Messina, la città dove si svolgono le azioni. Stanno sempre in scena seduti ai due lati (una dislocazione ormai diventata un’abitudine di molti registi) a tramandarsi e rivivere vicende di morte e di amore come quella che rappresentano.

Alcuni escono e subito rientrano; farfugliano qualcosa; si agitano; assistono con partecipazione o meno a ciò che avviene in scena in attesa di riprendere il loro ruolo rientrando nel ring; accennano a danze tzigane accompagnate da canti e musiche etniche sempre, fastidiosamente, presenti in sottofondo.

E intanto s’intrecciano, instabilmente, le tormentate vicende di Ero e Claudio, di Beatrice e Benedetto. I primi sono i giovani e ingenui fidanzatini che il malvagio Don Juan, invidioso della protezione accordata loro dal principe d’Aragona, don Pedro, suo fratellastro, cerca invano di dividere ordendo inganni; i secondi, la coppia principale, sono due bisbetici che si odiano per atteggiamento e rifiutano di corteggiarsi per snobismo, ma finiscono con il domarsi a vicenda e con l’unirsi a loro volta in matrimonio. Il tutto, nella trama, complicato da intrighi, battibecchi, complotti, equivoci, tradimenti falsi e veri, fidanzati creduloni, figli illegittimi, finte morti di fanciulle in fiore.

Uno spettacolo volubile, troppo, fra ironia e autorappresentazione, con alcune parti tagliate – la ronda di notte, quella dagli amenissimi strafalcioni che senza volerlo risolve l’intrigo -, dove, a mio avviso, spicca e funziona soprattutto la coppia formata da Daniele Pilli e Leandro Amato, ovvero Don Juan e il servo Borraccio, ben caratterizzati e irresistibili per comicità contenuta, corposa e stilizzata alla stesso tempo, con punte di sceneggiata napoletana ad opera del bravissimo Amato. La tragicommedia è, per sé, davvero un “nulla” per il quale si fa “tanto rumore”, che è il rumore della propria inconsistenza o irrealtà. Ma di questo, a fine spettacolo, non rimane nulla.

Al teatro Eliseo di Roma, fino al 26 gennaio

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