Il troppo che uccide
Certe trame dello show-business sono così tristi, scontate, e ripetitive, da togliere la voglia di raccontarle. E quella di Whitney Houston perfino di più. A rileggerla oggi, a poche ore da quest’ultima morte annunciata, quella di Whitney sembra l’ennesima fiaba trasformata in tragedia. Che poi, in questo ambiente vien da pensare che siano proprio certe fiabe a contenere già in sé il dramma, quasi a rappresentarne la nemesi.
Un successo, il suo, annunciato anch’esso (era figlia di un ottima cantante gospel, cugina di una star del black-pop come Dionne Warwick, e figlioccia della mitica Aretha Franklin). Fin dai suoi esordi, poco più che ventenne, fu subito chiaro a tutti che avrebbe lasciato il segno. Perché oltre al fantastico pedigree, la fanciulla era troppo di tutto: bella da mozzare il fiato, brava da incantare, ricca da invidiare, e così imbarazzantemente perfetta da non sembrare neppure vera.
Nel 1986 il suo primo Grammy (gli oscar della musica che per uno scherzo del destino vanno in scena proprio in queste ore), poi la solita litania di album e singoli per anni regolarmente ai vertici delle classifiche (a tutt’oggi ha venduto quasi 200 milioni di dischi). La grazia di una sirena che tuttavia pareva solcare i marosi del pop con la prestanza di un Titanic. Anche Hollywood non tardò ad accorgersi di lei: in The bodyguard aveva Kevin Costner al fianco, e la celeberrima I will always love you, pezzo forte della colonna sonora, arrivò a vendere più di 40 milioni di copie.
Come troppo spesso accade, un successo troppo grande e repentino per poter essere metabolizzato senza effetti collaterali; a cominciare da un matrimonio sballato con un rapper rissoso come Bobby Brown. I suoi guai partirono proprio da lì, rivelando tutta la fragilità di una carenatura inadeguata a reggere da sola le infinite pressioni circostanti, e forse anche troppo fiduciosa o presuntuosa per temere le insidie sommerse di sempre più numerosi iceberg.
Eppure qualche anno fa, Whitney sembrava aver invertito la rotta: aveva un nuovo compagno, un nuovo produttore in grado di proteggerla e consigliarla al meglio, l’ennesima disintossicazione sembrava dar frutti, e dopo anni di esibizioni imbarazzanti, dava l’impressione d’aver ritrovato un po’ dello smalto primigenio. Anche noi nel 2009 recensimmo con sollievo il suo I look to you, un dischetto gradevole, sincero, pieno di speranza. La stessa che provavano i milioni di fans che non avevano mai smesso d’aspettarla. La stessa di chi, come il sottoscritto, pensava d’aver a che fare con un “punto e a capo” in grado di dare una svolta positiva alla sua trama umana e professionale.
Oggi le cronache ci hanno sbattuto in faccia che non era così, o comunque, che quel punto non bastava affatto. Troppo facili i parallelismi di quest’epilogo con quello di Michael Jackson o della Winehouse e di mille altri, meno eclatanti ma non meno tragici. Né sarebbero giusti, a dirla tutta: perché ogni creatura ha la sua storia, i suoi calvari, le sue stimmate e, almeno per chi ha fede, le sue auspicabili resurrezioni.