Il “tira e molla” dell’immunizzazione contro il Virus respiratorio sinciziale

Una nota del ministero della Salute aveva inizialmente bloccato la possibilità per le regioni in piano di rientro dal disavanzo sanitario di fornire il farmaco di profilassi contro il Vrs. Ora il Dipartimento di prevenzione è tornato sui suoi passi, ma la questione delle disparità rimane aperta
ANSA/ROLEX DELA PENA

Negli ultimi anni si è parlato parecchio, in ragione della sua accresciuta circolazione, del virus respiratorio sinciziale (spesso abbreviato in VRS o anche RSV, utilizzando l’acronimo inglese): parliamo di un virus che colpisce le vie aeree, e che in particolare nei neonati o nei bambini molto piccoli è causa principale della bronchiolite. Si tratta di una malattia respiratoria che può causare complicazioni anche severe, tanto che la società italiana di pediatria afferma che questa è la prima causa di ricovero sotto l’anno di vita. Ne necessiterebbero infatti circa il 4% dei bambini colpiti sotto l’anno d’età; e tenendo conto che, data l’alta circolazione del VRS, si stima che oltre la metà dei bambini ne vengono prima o poi in contatto entro il primo anno di vita e tutti entro il secondo anno, è chiaro l’impatto sulla salute pubblica di questa patologia. Aggiungiamo poi che circa il 40% dei bambini che ne sono stati colpiti manifesta problemi respiratori anche in seguito.

Il VRS non ha una cura specifica, né un vaccino somministrabile a bambini di quell’età; esiste però un anticorpo monoclonale (ossia una difesa immunitaria già “prefabbricata” che viene somministrata con un’iniezione), già ampiamente utilizzato e che si è dimostrato efficace: una singola somministrazione protegge il bambino per almeno 5 mesi, riducendo del 77% il rischio di ospedalizzazione e dell’86% quello di ricovero in terapia intensiva. Dati che appaiono confermati dalla pratica in Spagna, che ha già introdotto da due anni l’offerta di questo farmaco a tutti i bambini (così come altri Paesi europei): si è infatti registrata una diminuzione del 70% delle ospedalizzazioni per VRS, in linea con quanto previsto.

In Italia sinora, in assenza di una politica unica nazionale in materia – il farmaco in questione, il Nirsevimab, è infatti classificato dall’Aifa come “di fascia C”, ossia quelli al di fuori dei Livelli essenziali di assistenza e quindi dall’obbligo da parte del servizio sanitario nazionale di fornirlo –, ogni Regione ha provveduto per sé: chi non l’ha garantito affatto, chi l’ha garantito gratuitamente ai neonati fragili, chi gratuitamente a questi e ad altri a pagamento, chi è arrivato a garantirlo a tutti i bambini entro i 6 mesi (la prima è stata la Valle d’Aosta). Per la stagione epidemica 2024-2025 c’era l’aspettativa di arrivare ad un progressivo riallineamento a quest’ultima ipotesi; che si è però momentaneamente infranta contro una nota del Dipartimento di prevenzione del ministero della Sanità del 18 settembre scorso. La nota specifica infatti che le Regioni in piano di rientro dal disavanzo sanitario – Lazio, Abruzzo, Molise, Campania, Calabria, Puglia e Sicilia – non possono ad oggi garantire la somministrazione di questo farmaco in quanto extra Lea; mentre le altre possono farlo, a condizione però di provvedervi con risorse proprie aggiuntive al fondo sanitario regionale. Una nota, in sé e per sé, puramente tecnica – le Regioni in piano di rientro non possono effettuare spese extra Lea – ma dalle conseguenze evidentemente pesantissime, specie per quelle Regioni, come la Puglia, che già si erano comunque organizzate per provvedere.

È ovviamente seguita la levata di scudi e la ridda di appelli a fare marcia indietro da parte dei sanitari, e in particolare di tutte le associazioni e dei professionisti del mondo pediatrico, per diverse ragioni.

La prima è, come comprensibile, etica: non è accettabile che un bambino, solo perché ha la sfortuna di nascere nella regione “sbagliata”, non possa ricevere la profilassi contro un virus dalle conseguenze potenzialmente gravi e di lungo termine. Resta naturalmente la possibilità di acquistarlo di tasca propria, come per tutti i farmaci di fascia C, sempre che si trovi un medico che lo prescriva (parliamo infatti di un farmaco disponibile solo nei centri ospedalieri e specialistici, non nelle farmacie); ma anche qui si creano disuguaglianze tra chi può permettersi di sborsare i 250 euro necessari (tale è il costo dichiarato dall’Aifa) e chi no. «Non si possono discriminare i neonati in base alla regione in cui vengono al mondo – ha commentato all’Ansa Filippo Anelli, presidente nazionale della Federazione degli ordini dei medici –. E temo che con la devoluzione si andrà sempre più in quella direzione. I cittadini sono tutti uguali nella nostra Repubblica davanti alla salute, come recita l’articolo 32 della Costituzione».

La seconda è di ordine economico-sociale: quand’anche volessimo risparmiare sul Nirsevimab, dobbiamo considerare il rischio che i costi conseguenti superino quelli della campagna di profilassi, andando a dissestare ulteriormente le già dissestate finanze sanitarie delle Regioni in piano di rientro. «La valutazione dell’impatto economico della profilassi universale con il Nirsevimab – afferma la Società Italiana di Neonatologia – deve considerare che i costi sarebbero coperti dai risparmi secondari all’abbandono del Palivizumab [il farmaco analogo precedentemente utilizzato, ndr] che ha un costo circa 15 volte superiore per paziente, dall’abbattimento delle spese causate dai ricoveri ospedalieri (almeno 4000€ per ogni ricovero in reparto e 14000€ per ogni ricovero in terapia intensiva), dalla riduzione degli oneri associati agli esiti delle infezioni da Rsv (broncospasmo ricorrente, asma) e dalla limitazione dei costi sociali causati dagli oneri che i genitori devono sostenere per assistere i loro figli colpiti dall’infezione».

Il ministero, a onor del vero, già il giorno dopo è tornato sui suoi passi: in una nota firmata dal Capo Dipartimento della Prevenzione, Maria Rosaria Campitiello, si legge infatti che «in considerazione dell’aumentata incidenza del virus respiratorio sinciziale nella popolazione pediatrica, il ministero della Salute ha avviato interlocuzioni con Aifa, di cui sono state informate tutte le Regioni con nota trasmessa dalla Direzione della programmazione sanitaria, affinché si proceda al trasferimento dell’anticorpo monoclonale Nirsevimab-Bey dai farmaci in fascia C a quelli in fascia A, dunque a carico del Servizio sanitario nazionale».

Tutto è bene quel che finisce bene, dunque? Sì, purché si faccia presto: la stagione epidemica inizia a novembre, per cui le interlocuzioni con Aifa di cui il ministero parla devono essere rapide. Più in generale, però, la questione ha sollevato l’attenzione – come segnalato da Anelli – su un tema già ben noto a chi ha necessità di prestazioni sanitarie o farmaci extra Lea e che rimane aperto: la disparità esistente tra le Regioni, e la necessità di recarsi altrove, con disagi sia logistici che burocratici conseguenti, sempre che lo si possa fare. Un divario che si teme si ampli se l’autonomia differenziata non sarà gestita, come nelle intenzioni dichiarate dai promotori, in maniera tale da ridurre le diseguaglianze invece di aumentarle.

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